"Sfidare il Polo Sud è come scrivere: un fatto di tempo, non di spazio"

L'autore di "Ultimo parallelo" (che ora torna in edizione accresciuta) e le imprese creative

"Sfidare il Polo Sud è come scrivere: un fatto di tempo, non di spazio"

Qualche anno fa, Bill Manhire, «poeta laureato» della Nuova Zelanda, mi ha donato un libro mirabile. S'intitola The Wide White Page, è un'antologia dedicata agli «scrittori che hanno immaginato l'Antartide». Ho scoperto, così, che il giovane Vladimir Nabokov, atterrato in Inghilterra dopo varie peregrinazioni, in fuga dall'orrore rosso della Rivoluzione, era attratto dai diari di Robert Falcon Scott, che scoprì al British Museum. Poco più che ventenne, Nabokov pubblica l'atto unico Polyus - ancora inedito in Italia - su Rul', rivista dell'emigrazione russa stampata a Berlino. Finì per dimenticarsene, ma il finale di quel gioco teatrale sui ghiacci scintilla: mentre sta morendo, Scott sussurra, «la gente ama le favole, non è così? E io sono solo, nella neve, distante...». Credo che Antartide sia l'estrema sfida della scrittura, un farneticare nella morgana, l'icona bianca, la lebbra che costella la Pietà di Tiziano, dipinta a mani nude, nella febbre, prima di morire. «L'Antartide ha divorato le loro credenze e i loro miti nati altrove», scrive Filippo Tuena, in un libro, Ultimo parallelo, che per postura e nobiltà formale è tra i rari assoluti della nostra letteratura recente. Edito da Rizzoli nel 2007, il racconto della tragica spedizione antartica di Scott torna ora, con lunga introduzione «e un'appendice di brani inediti» per il Saggiatore (pagg. 358, euro 21), così che ne possiamo saggiare la bellezza, enigmatica come un iceberg, anomala (ricorda, per germinazione colta, alcuni libri di W.G. Sebald). Il romanzo principia sul ciglio di un verso di Thomas S. Eliot, racconta i corpi, leggendari, cristallizzati nel ghiaccio, registra i miti maori, prolifera - pur redigendo la cronaca di quel letale 1912 - una teologia antartica: «In qualche modo, gli esploratori provenienti dall'altra parte del mondo saranno costretti a procedere all'infinito, perché è soltanto con l'andare che le divinità si manterranno in vita. Ed è un andare quasi folle...». Il viaggio di Tuena - Antartide è una infatuazione all'abisso albino - non terminò col romanzo: per Nutrimenti, nel 2010, ha curato i Diari antartici di Scott, Shackleton e Wilson. Deserto di dèi, il Polo Sud pare un falò freddo, il fuoco radicale, il Giorno dei Giorni: allo scrittore è chiesta crudele fermezza.

In faccia all'editore, lei ha proposto «un libro d'avventura in terre dove non sono mai andato e... non andrò mai». Perché proprio Antartide?

«In parte per quella mostra mai realizzata di cui scrivo nella prefazione: l'abbigliamento degli esploratori polari mi rimandava ad anni lontani. Dunque non distanze di spazio, ma di tempo, che poi sono le uniche che uno scrittore può percorrere e ripercorrere all'infinito. Poi mi sembrava una bella sfida. Di quelle da lanciare al mondo editoriale. Ma una sfida propositiva, di quelle facciamo una partitella? Due tiri al pallone?».

Ogni tanto scrive in versi, forse appropriandosi di un'altra prosa: perché?

«Non c'è una ragione specifica. È vero che Borges disse una cosa che ripeto spesso, che non c'è una differenza forte tra scrivere in prosa o in versi, solo che quando si va a capo senza apparente ragione il lettore deve aspettarsi un cambio di registro, qualcosa che lo metta sull'avviso. È anche vero che spesso la prima stesura dei miei libri è così, in questa sorta di prosodia e che l'andare a capo ha la funzione della punteggiatura; sostituisce un artificio grafico che se posso evito».

Torno alla poesia. Cita, nell'introduzione, The Waste Land e una poesia di Rilke, Orfeo. Euridice. Hermes. Come le sono stati utili nel viaggio letterario al polo Sud?

«Il brano di The Waste Land, con l'apparizione dell'uomo in più direi che è stato fondamentale per Ultimo parallelo. Ha dato il La al libro, alla sua struttura, all'ambiguità che riveste la figura del narratore (o del lettore). L'ultimo verso della poesia di Rilke è invece venuto alla fine e manifesta l'angoscia che ogni scrittore ha e alla quale si oppone: la perdita della memoria. Del resto la lunga prefazione a questa edizione è anch'essa una schermaglia con la memoria che ho di quella vicenda. Quel che è sempre rimasto visibile, quel che ho fatto riemergere, quel che non potrà mai riemergere».

Che cosa la turba ancora rileggendo Ultimo parallelo? Intendo: il passo riuscito, il personaggio risolto, la pagina imperfetta, piccoli livori, il genio della vergogna...

«Da un lato la perdita di possesso. Una volta che la pagina è stampata non appartiene più all'autore. E dunque una sorta di malinconia per quel che è stato fatto. Per contro, il tornare a ragionare su un'opera combatte questa malinconia. Mi ripeto: c'è ancora da dire, c'è ancora da scoprire. A volte, come per Le variazioni Reinach, la riscrittura è stata sostanziale; altre volte, come per Ultimo parallelo, il testo non è stato rivisto, ma gli apparati - un centinaio di pagine in più - credo modifichino concretamente il testo. Messi così, uno all'inizio, uno alla fine, lo puntellano, lo incorniciano. Rimanendo alle sue domande: il passo riuscito mi rammarica, perché svetta su altri che non mi soddisfano. Sui personaggi: ho una grande simpatia per Atch. Regge tutta l'ultima parte del libro. Spero d'aver tagliato le pagine imperfette. Un libro quando esce è un atto di felicità, qualsiasi livore è cancellato. La vergogna è un buon filtro, aiuta. Ma poi bisogna svelarsi».

Come ha costruito quel libro?

«I miei libri hanno tutti una costruzione in fieri, si formano a mano a mano che la scrittura procede. Mentre si costruisce controllo se mantiene un equilibrio, se ha bisogno di assestamenti. Per esempio, il primo capitolo l'ho scritto per ultimo. Mi sembrava importante, a fine lavoro, mostrare quasi in maniera cinematografica gli esploratori; dire al lettore: ecco, guarda dove stai andando. Dunque, una grande libertà, e grande rispetto per i documenti e la convinzione che la narrativa ha bisogno di un suo stile - chiamiamolo letterario - che deve saper emergere oltre gli eventi raccontati. Deve aggiungere qualcosa, non soltanto raccontare. Deve spostare l'atmosfera dal resoconto al ricordo. Rileggo spesso l'esordio di Cuore di tenebra, quella pigra atmosfera del Tamigi al tramonto e Marlow che si appresta a ricordare. Ecco, ogni narratore dovrebbe tenere a mente quelle pagine».

Stonewall Jackson, Bix, Michelangelo, Géricault: dichiara che sono i suoi miti. Perché? Che cosa li accomuna, se qualcosa li accomuna? Non c'è neanche uno scrittore.

«Cerchiamo sempre modelli che non abbiano operato nel nostro campo - ne saremmo annientati. Libri di riferimento ne ho tanti, però. Potrei citare La peste di Camus, a cui vorrei dedicare un po' di tempo in futuro, appena finisco ciò a cui sto lavorando. Riguardo i modelli che indico - e che sono vere passioni - a ben guardare, avendoli studiati a fondo, m'ha sempre affascinato la distanza che separava la loro arte dalla loro vita privata. Quel senso di fragilità cui opponevano la sapienza nel loro lavoro».

Che senso ha andare all'Antartide, andare alla deriva nella scrittura, avventurarsi nel bianco di un foglio e scrivere un libro?

«Intestardirsi».

Che rapporto ha con questo mondo?

«Scarso. Quel che ho vicino non mi attrae».

Che libro va scrivendo?

«Sto cercando di scrivere un libro dedicato a una sola poesia. Ma finirà, immancabilmente per essere un libro su di me».

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