"Lo shtetl perduto" è una favola utopica al riparo dalla Storia

Una comunità ebraica isolata dal mondo deve fare i conti (per poco) con la modernità

Capolavoro assoluto, almeno per le prime 200 pagine. Capolavoro ebraico. Yiddish. È il romanzo Lo shtetl perduto di Max Gross (tradotto da Silvia Montis, pagg. 448, euro 19) per le Edizioni e/o. Era gennaio del 1984 quando, sempre le Edizioni e/o pubblicarono il suggestivo libro fotografico Un mondo scomparso di Roman Vishniac, che raffigurava gli estremi lembi di una comunità - quella degli ebrei dell'Europa orientale - sulla soglia della scomparsa provocata dalle dinamiche della modernità, che non ammette residui arcaici. Ma l'estinzione totale dell'ebraismo orientale fu causata soprattutto dalla programmata violenza dell'annientamento sistematico da parte dei nazisti. Eppure - ecco l'invenzione straordinaria di Max Gross - ci fu un villaggio tutto ebraico - uno shtetl: Kreskol - circondato da fittissime foreste, che aveva da cent'anni, gradualmente ma conseguentemente interrotto ogni contatto con le città, le amministrazioni sia statali sia rabbiniche e così si era salvato dalla Storia.

Era crollato l'Impero zarista, era sorta la prima repubblica di Polonia, era scoppiata la Seconda guerra mondiale, con l'occupazione tedesca, lo sterminio nazista, il crollo del Reich, la Seconda Repubblica polacca sotto l'influenza sovietica, il crollo dell'Urss. Insomma con decenni e decenni di isolamento, appartati dalla storia mondiale, in una nicchia dimenticata dalla storia, gli ebrei di Kreskol, lo shtetl perduto, conoscevano solo le loro storie di amori, odi, laboriosità, e soprattutto di pratiche devote con il rispetto dei vecchi rabbini, in un universo ancorato alla tradizione, sopravvissuto alle tragedie e agli sconvolgimenti della modernità. L'invenzione di Gross, scrittore e giornalista newyorkese, è la descrizione epica di questo mondo perduto e poi del graduale ritrovamento per un motivo quasi banale: una giovane donna, Pesha, divorziata per maltrattamenti, scompare da Kreskol.

I rabbini pensano che potrebbe essere stata uccisa dal marito violento, che pure sparisce da un giorno all'altro. Allora il giovane Yankel viene incaricato di ritrovarla e infatti - salito su un carrozzone di zingari, gli unici che di tanto in tanto, raggiungono lo shtetl - riesce ad arrivare in città e a scoprire il mondo moderno con autostrade, macchine, aerei, televisori, elettrodomestici, telefoni, bus e semafori, palazzoni e ascensori, pc e cellulari, caffè e coca-cola. Lo stordimento di fronte a tutto ciò che è normale, ovvio, quotidiano è la parte più ironica e raffinata del racconto.

Yankel alla fine, internato in una clinica nel reparto di psichiatria, diventa un caso interessantissimo per i medici con una dettagliata, accurata narrazione del suo incivilimento nel rispetto della sua identità (da Berlino gli arriva la costosa dieta kosher). Lentamente i medici si accorgono che nella presunta pazzia di Yankel c'è del metodo. Il giovane è quieto, ragionevole, collaborativo: infatti lui, che parla solo yiddish, - la lingua ormai estinta degli ebrei polacchi -, si applica a imparare il polacco. Alla fine per un caso fortuito viene ritrovato lo zingaro che gli aveva dato un passaggio nella civiltà e si organizza un volo a Kreskol.

L'atterraggio nella piazza del mercato è la scena più umoristica del romanzo: gli abitanti sono esterrefatti e quando scende dall'elicottero un anziano con barba bianca immaginano che sia il messia e Yankel si deve impegnare a spiegare l'equivoco e a raccontare ai suoi compaesani storie per loro fantastiche dell'altro mondo, tra cui l'olocausto, cui erano scampati.

Fino allo sbarco dell'elicottero il romanzo è una sequela inesauribile d'invenzioni, d'ironia, con lo sguardo estraniante e innocente di una comunità ancora integra, di una umanità con valori, sostenuti dalla religiosità che è prassi di vita, mentalità, cultura profonda. Affiora uno shtetl che vive ancora nell'incanto dell'arcaicità, ma che improvvisamente impatta con il mondo del disincanto, dell'amministrazione, delle arduamente resistibili seduzioni della modernità. E assistiamo alla conquista di Kreskol da parte dei burocrati e di vocianti fiumane di turisti alla scoperta di questi selvaggi che parlano solo yiddish, che usano ancora la valuta (e i prezzi) di cento anni fa. Intanto, intorno al tema dello shtetl perduto s'intreccia la storia di un amore struggente fra Yankel - una specie di Parsifal e di Robinson ebreo - e la bellissima Pesha che, fuggita dallo shtetl, per sopravvivere era diventata una prostituta. Il giovane l'incontra fortuitamente e se ne innamora perdutamente, ma qui la storia d'amore - come ogni vera storia d'amore - diventa tragica. Ma anche tragica è l'avventura nella modernità del villaggio perduto (e dunque salvatosi). Viene perfino contestata la sua realtà. Gli abitanti vengono accusati di aver mentito, di aver ordito una frode colossale per impadronirsi dei cospicui finanziamenti statali. Dopo inchieste su inchieste passa una legge, sostenuta dai populisti, per bloccare le generose sovvenzioni pubbliche. Intanto anche tra gli ebrei di Kreskol vince la frazione fondamentalista.

E alla fine vissero felici e contenti: la strada costruita dopo la scoperta viene improvvisamente interrotta con la piantagione, in segreto, di alberi. La protettiva selva oscura viene ripristinata, mentre il servizio di autobus è soppresso, come la posta. Il wi-fi, comunque, nella foresta non arriva.

Yankel, dopo aver lottato per Pesha, si arrende: lei aveva affermato di voler andare a Occidente, lui se ne torna a Oriente, al suo shtetl. Riprende la sua tradizione, dove la perdizione s'identifica con la salvazione. Così Kreskol si perde di nuovo, ritrovandosi: una favola e insieme una strana utopia di esilarante ironia e di amaro pessimismo.

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