Siamo maledetti dall'alba dei tempi. Viaggio nei misteri della genealogia

Il "Libro del sangue" è un perturbante percorso iniziatico in letteratura

Leggendo il terzo romanzo di Matteo Trevisani, Libro del sangue (Atlantide, pagg. 220, euro 16), vengono subito in mente due libri a cui sembra aver guardato e che rivelano due diverse linee culturali che si intrecciano. Da una parte la Teogonia di Esiodo, e dall'altra il libro del Genesi. Ma cosa ha esattamente attinto Trevisani da questi due pilastri della cultura Occidentale, quello della poesia classica e quello dei testi sacri? L'idea di una genealogia, quindi di una discendenza e di una ascendenza che traccia una linea tra le generazioni, siano queste di uomini in carne e ossa o di divinità. Una linea che unisce principio e fine, passato presente e futuro, nascita e morte, vita nella morte e morte nella vita.

Quello che Trevisani, o l'io narrante che porta il suo stesso nome, Matteo, vuole scoprire, è subito detto: «il seme dell'albero: sapere dove si origina la maledizione». La maledizione di cosa? Quella della sua famiglia, nel cui albero genealogico i primogeniti muoiono quasi tutti in mare. Più che a una tradizione romanzesca, Trevisani sembra volersi accostare a una letteratura, per così dire, iniziatica, che da René Guénon arriva fino a Carlos Castaneda e agli studi sul mito e sul sacro di Carl Gustav Jung, Mircea Eliade e Elémire Zolla. Per lui il romanzo è prima di tutto un'iniziazione, dove la macchina narrativa cerca, pagina dopo pagina, di scardinare i simboli che si rintracciano nel percorso. Una ricerca che ha quindi come scopo quello di compiere un'esperienza conoscitiva. «La storia delle famiglie è un filo teso sopra l'abisso che connette il primo vagito animale e l'ultimo respiro dell'ultimo uomo, una strada che quando hai iniziato a percorrere non ti permette di riposare, di fermarti, pena il cadere per sempre nel vuoto».

Per caso, o per un destino già segnato che lo ha portato lì, Matteo incontra Alvise, un uomo che per tutta la vita si è occupato di alberi genealogici e che vive, insieme a sua figlia Giorgia, in una casa nel bosco della campagna laziale. Alvise è quello che si dice un maestro, che poi vuol dire un ponte, un tramite, colui che permette alla voce narrante di essere iniziato alla scienza genealogica, che assomiglia a un mondo di magia, la stessa che gli ha consentito di comunicare al discepolo il giorno della sua morte, prevista di lì a qualche giorno.

L'architettura del romanzo è un orologio ben congegnato. La stessa scrittura è per Trevisani la creazione di un tempo che, scavando in un remoto passato, trovi un modo per salvare il futuro. Non la propria vita, già maledetta dall'alba dei tempi, ma quella di chi resta, di un figlio che non si vuole coinvolto in un uguale destino. «Non si scappa dalla colpa della successione.

Il tuo compito è quello di far assomigliare il tuo albero psichico a quello reale () Ma è qui che accade la magia: l'albero diventa reale anche se lo inventi». Ogni gesto, ogni passaggio del romanzo rimanda a qualcosa di archetipico e simbolico, così come il credere che la salvezza è tale se si è capaci di compiere un sacrificio.

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