Sotto l'"Arco di trionfo" Remarque fa sfilare l'amore e la vendetta

Parigi, 1938: un medico tedesco sfuggito alla Gestapo trova due nuove ragioni per vivere

Arco di trionfo, di Erich Maria Remarque, che ora Neri Pozza ripropone (pagg. 508, euro 18, traduzione di Bruno Maffi) uscì per la prima volta nel 1945, quando la guerra era appena finita, il nazismo sconfitto e la Germania un cumulo di macerie. Curiosamente, anche se le vie della creazione letteraria sono misteriose, raccontava l'Europa, meglio, la Parigi, dell'anteguerra, quel 1938 in cui febbrilmente si cercava di scongiurare il conflitto che si sentiva incombente e insieme c'era però l'idea, meglio, l'illusione, sorretta dalla presunzione, che se i nodi fossero venuti al pettine, certamente il pettine francese li avrebbe sciolti da par suo. C'era la Linea Maginot, si diceva nei café, nei restaurants, nei giornali e nelle aule parlamentari e per i boches, ovvero per i tedeschi, non c'era possibilità di scampo: avrebbero finito per lo schiantarvisi. Nell'attesa, la capitale continuava a riempirsi di profughi, ma rispetto all'ondata successiva alla Rivoluzione d'Ottobre, quella dei cosiddetti «russi bianchi», il clima si era fatto più tossico e più sospettoso. Gli ultimi arrivati erano i repubblicani spagnoli, sconfitti da Franco nella guerra civile appena conclusasi. Ma prima di loro, oppure insieme a loro c'erano i tedeschi in fuga da Hitler, gli italiani ostili a Mussolini, gli ebrei di una Mitteleuropa andata in pezzi, persino i russi «rossi» scampati allo stalinismo... Il governo francese sorvegliava, chiedeva i documenti, espelleva, allestiva campi profughi che sembravano prigioni e insomma «liberté, égalité, fraternité» era un bello slogan, la democrazia era meglio delle dittature, ma la Francia era la Francia e i francesi venivano prima di tutto. I francesi ringraziavano e denunciavano alle autorità lo straniero sospetto...

Ravic, il protagonista del romanzo di Remarque, è un chirurgo tedesco, già arrestato e torturato in patria dalla Gestapo e poi fortunatamente e clandestinamente riuscito a espatriare. Il suo vero nome è Ludwig Fresenburg, presta i suoi servizi di medico in un bordello, aborti e malattie veneree per lo più, opera sottobanco in una clinica privata quando il primario ha bisogno di qualcuno più bravo di lui, vive in una stanza d'albergo, beve e gioca a scacchi con un ex ufficiale zarista, Morozow, che ora fa il portiere di un locale notturno, lo Shéhérazade. È cinico e disilluso, Ravic, ha alle spalle il suicidio della sua donna, Sybil, vive un tempo presente fatto di incertezze, di paure e, soprattutto, di nessun futuro all'orizzonte. Poi un giorno gli accadono due cose: incontra una donna, Joan Madou, italiana, romena, chissà, cantante, attrice, chissà, sbandata, perduta, intenta solo a sopravvivere e con cui, chissà... E intanto però tra la folla nelle strade crede di riconoscere il volto di Haake, il poliziotto tedesco che è stato il suo aguzzino e a cui si deve il gesto estremo di Sybil. Così, se da un lato c'è un possibile amore, dall'altro c'è una possibile vendetta...

Di Arco di trionfo uscì nel 1948 la trasposizione cinematografica, con protagonisti Charles Boyer e Ingrid Bergman, uno di quei bianco e nero che rientrano nel filone inaugurato all'inizio degli anni Quaranta da Casablanca e dove c'erano spesso gli stessi attori e la medesima atmosfera: night e stanze d'albergo, spie e torturatori, amori impossibili, vite spezzate, molto fumo, molto alcol, molta pioggia, dialoghi che avevano il tono di sentenze... Un critico dell'epoca osservò che Charles Boyer era troppo elegante per impersonare un profugo, il che per certi versi era vero, visto che Boyer fu l'attore più elegante fra gli anni Trenta e Quaranta, il protagonista maschile di Maria Walewska, di Tovarich, di Mayerling. E tuttavia il Ravic del romanzo di Remarque non è un profugo qualsiasi: è un chirurgo coscienzioso, non sfigura in società, ha amicizie femminili cosmopolite, americane soprattutto, che ne conoscono perfettamente il passato.

Il film, rispetto al romanzo, è più retorico. Ma sotto questo aspetto Remarque non si fa mancare nulla. I dialoghi fra Ravic e Joan, per esempio, o il monologare del primo sono ad alto tasso di decadentismo: «Che tu sia benedetta, madonna dal cuore incostante, Nike dall'accento rumeno! Sogno e inganno, specchio infranto di un dio oscuro, in coscienza - grazie! Non te lo dirò mai perché ne approfitteresti in maniera spietata, ma mi hai restituito quello che né Platone, né i più bei crisantemi, né la fuga, né la libertà, né la poesia, né la compassione, né la disperazione, né la più alta e paziente speranza avevano potuto darmi: quella vita, semplice, forte, elementare, che, in tempi costellati di catastrofi, mi era sembrata quasi un delitto. Che tu sia benedetta! Che tu sia ringraziata! Dovevo perderti, per saperlo!». Il tono in generale è questo qui, che affronti i sentimenti o le amicizie virili o dica la sua sul mondo: «Perché è così raro che le persone pie siano leali? Il miglior carattere ce l'hanno i cinici, il più insopportabile gli idealisti». Oppure: «Guarda come siamo ridotti! Per quel che ne so, solo i greci antichi avevano la gioia di vivere: Bacco e Dioniso. Noi, in cambio, abbiamo Freud, i complessi di inferiorità, la psicanalisi... paura delle parole troppo grosse in amore e parole troppo grosse in politica. Generazione miserabile!». E infine: «Il mondo, oggi, è pieno di avventurieri involontari. Li trovi in qualunque albergo di profughi. E ognuno ha una storia da raccontare che per Alexandre Dumas o per Victor Hugo sarebbe stata una rivelazione, e di fronte alla quale oggi si sbadiglia prima ancora di sentirla. Dell'altra vodka, Kate. La grande avventura, oggi, è una vita limpida e tranquilla».

Fermo restando che Remarque è un narratore di prim'ordine, letto oggi Arco di trionfo suona un po' come un déjà vu e il suo mélo, per quanto rientri nello spirito dell'epoca, a un lettore contemporaneo risulta stucchevole: troppi sensi di colpa, troppo senso dell'onore, troppo amore come sempre e solo disperazione e/o dannazione... Eppure, il colpo di genio arriva quando meno e dove meno te lo aspetti. Perché quel viso intravisto fra la folla è proprio il viso dell'odiato Haake, che però di lui non si ricorda, gliene sono passati tanti, di prigionieri da torturare, fra le mani. Lo scambia per un suo connazionale, accetta l'invito di andare a fare bisboccia insieme, di montare sulla sua macchina. Ci si aspetterebbe uno scontro ad alta tensione ideale, una resa dei conti in cui la vittima diventa giudice e magari giustiziere, mette il carnefice di fronte ai suoi crimini e lo condanna, il bene che insomma trionfa nobilmente sul male, l'umanità che trionfa sulla barbarie. E invece Ravic stordisce Haake con una chiave inglese, poi lo strozza a mani nude, poi lo seppellisce in una fossa di fortuna, ma prima lo spoglia e brucia indumenti e documenti. Dopo di che è pacificato, non ha sensi di colpa, ci dorme sopra, si sente tornato bambino: «Gli sembrò di avere dodici anni, e di essere stanco e solo nella strana solitudine della gioventù e della crescita».

Quando lo racconterà al vecchio amico Morosow, uno che gli

orrori della guerra li ha conosciuti, il «russo bianco» che da ufficiale dello zar si è ritrovato portiere dello Shéhérazade, quest'ultimo gli replicherà: «Ho bisogno di bere qualcosa: è la prima volta che mi sento vecchio».

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