"La speranza" di Malraux fa paura quanto la guerra

Ecco il romanzo dello scrittore sul conflitto in Spagna. Andò al fronte. Ma subito dopo lasciò la letteratura...

"La speranza" di Malraux fa paura quanto la guerra

Nella fotografia del Goncourt, ottenuto nel 1933 per La condizione umana, il viso, trentaduenne, capelli impomatati, occhi in allarme, pare un coltello. André Malraux aveva fatto di tutto. Era il romanziere più vigoroso di Francia ma l'anno prima un tale Céline, con Viaggio al termine della notte, aveva vinto il Prix Renaudot , aveva razziato il tempio di Banteay Srei, in Cambogia, e denunciato il sistema coloniale francese. Aveva impalmato la ricca ereditiera tedesca Clara Goldschmidt, senza disprezzare qualche amante la più nota, Louise de Vilmorin, desiderata donna di mondo, sarà la musa della sua vecchiaia: non gli garbava che, come lui, fosse disinibita negli affari d'amore. Con l'ascesa di Hitler, si era iscritto all'«Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari», aveva avuto una figlia, Florence, trafficava con Mosca. Nel 1936, a casa di Mejerchol'd, discuteva per una messa in scena della Condizione umana; Ejzentejn s'era detto interessato a una traduzione cinematografica del libro; Boris Pasternak, con cui entrò in amicizia, trovava curioso e un po' grottesco il comunismo da calamaio di Malraux e André Gide. Più che altro, Malraux sapeva che non esiste la verità ma il racconto, che «gli eventi» c'incantano per effetto verbale più che per sostanza fattuale. Insomma, era l'estate del 1936, torrida di desideri, Gabriele d'Annunzio agonizzava al Vittoriale, T.E. Lawrence era morto l'anno prima, André Malraux voleva fare la Storia e cavalcare il drago del destino. Aveva bisogno di una guerra. Gli fu apparecchiata.

La Guerra di Spagna è stata l'evento letterario più importante del secolo. In quella specie di gita armata, il loggione della Seconda guerra, galvanizzati dall'avventura, si sono avventati artisti di ogni sorta. Tra George Orwell (Omaggio alla Catalogna) e Hemingway (Per chi suona la campana) preferisco la corrusca potenza di Henry de Montherlant (Il Caos e la Notte); l'unico poeta che gareggiava coi franchisti, il formidabile Roy Campbell, è pressoché inedito in Italia. André Malraux scrisse La speranza (Bompiani, pagg. 476, euro 16, nella traduzione impeccabile di Giovanni Pacchiano) in un lampo sei mesi ottenendo il risultato sperato: successo come scrittore («pubblicato da Gallimard nel novembre 1937, 1 milione 300 mila copie vendute in Francia fino ad oggi, tradotto in tutto il mondo, 40 edizioni circa in Giappone», così Enzo Golino in una Introduzione che in realtà è un articolo pubblicato nel 1989 su la Repubblica) e fama di autore in armi, di esteta armato. Insomma, s'era redatto l'agiografia. Il libro non è a onor di letteratura il più bello di Malraux. Eppure, la velocità narrativa è a tratti vorace («Manuel prendeva coscienza che la guerra consiste nel fare l'impossibile perché dei pezzi di ferro entrino nella carne viva»), le porzioni filosofiche sono potenti, apolitiche, apocalittiche: «C'è nell'uomo una speranza terribile e profonda Tra gli altri ruoli, la rivoluzione recita quello che un tempo veniva interpretato dalla vita eterna». In questa Roncisvalle permanente giova ricordare che poco prima d'imbarcarsi nella guerra civile spagnola Malraux, con la stessa determinazione, era volato nello Yemen, dove «nessun europeo aveva potuto penetrare», per cercare il regno della regina di Saba, che «appartiene alle civiltà perdute». Per Malraux raspare i cieli alla caccia di reami immaginari e bombardare città reali è la stessa cosa: Alessandro Magno è coetaneo di Francisco Franco, i secoli, privi d'altitudine, stanno sull'anulare, Guadalajara è come le Termopili, la Sfinge è parente di Picasso.

Nei fatti, Malraux non guidava gli aerei e sparava male. Antonio Camacho Benitez, capo dell'aviazione repubblicana, disse che «a seguito degli atti compiuti dal signor Malraux sarebbe lecito adottare almeno una di queste tre misure: disciplinarlo, espellerlo, sparargli». Malraux fece chiasso, animò un drappello di aviatori mercenari che compirono azioni di rilievo, dimostrò che l'immaginazione è più decisiva di una mitragliera. La speranza tradotto, con furia wagneriana, in film dallo stesso Malraux, nel 1938, come Espoir, sierra de Teruel è il congedo dalla letteratura di Malraux, che nel 1967, ormai potentissimo ministro degli affari culturali francesi, pubblicherà il capolavoro, Antimemorie, autobiografia sinistra, viscerale, vipera (esiste una traduzione Bompiani del 1968, perché non riproporla?).

Quando morì Charles de Gaulle, nel 1970, certo che fosse finita un'epoca, chiese precipitosamente a Indira Gandhi di potersi arruolare nell'esercito indiano che lottava per l'indipendenza del Bangladesh. Inseguiva la propria giovinezza, Malraux. Lei declinò l'aiuto. «La guerra rende casti», dice Manuel, uno dei protagonisti de La speranza.

In sottofondo, non risuona L'Internazionale ma il Kyrie di Palestrina. Come una specie di Giovanni della Croce, lo scrittore s'inoltra nella notte oscura della Storia. Affonda. Il suo ultimo sospiro è il romanzo che avete tra le mani.

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