Trump e "no global" alleati. Ecco perché si sbagliano

Giusto criticare i poteri sovranazionali. Sbagliati i dazi. Ci vogliono mercati globali e poteri locali

Trump e "no global" alleati. Ecco perché si sbagliano

Fino a pochi anni fa ogni cosa era ricondotta a un fenomeno avvolgente e decisivo, quello della globalizzazione. Si era certo consapevoli di assistere a una fase nuova di un processo che, in realtà, ha radici lontane e si è riproposto a più riprese: dal tempo delle fiere della Champagne, in età medievale, fino allo sviluppo dei commerci moderni in città come Venezia, Amsterdam o Londra. Ma era forte la percezione che le diverse società stessero connettendosi tra loro grazie a nuovi mezzi tecnologici che in passato erano impensabili. L'universo degli Stati nazionali chiusi sembrava lasciare il posto alla rete del mercato globale.

Oggi lo scenario è un altro, dato che ogni settimana emergono tensioni commerciali tra questa o quell'area. Protagonista cruciale in questo cambio di paradigma è Donald Trump, che in campagna elettorale ha promesso ai suoi elettori una serie di misure «difensive», a protezione di posti di lavoro e distretti industriali in crisi. Il presidente americano è però solo il principale interprete di una sensibilità condivisa e di una generale insoddisfazione nei riguardi del mercato.

Negli scorsi anni a cavalcare ogni opposizione all'apertura dei commerci era soprattutto l'estrema sinistra «no global», oltre a quanti trovavano pretesti vari per tutelare i loro interessi. In effetti, la globalizzazione è sempre stata molto parziale, poiché una serie di barriere non sono mai state abbattute. Ad esempio, usando argomenti di vario genere (ecologici, sanitari, umanitari) l'agricoltura occidentale è stata costantemente tenuta al riparo dai concorrenti asiatici o africani. Nonostante questo e a dispetto delle contraddizioni, quanto è avvenuto grazie alla globalizzazione ha qualcosa di prodigioso. Nell'ultimo trentennio il numero di coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà è crollato, a fronte di una crescita demografica rilevante. Perfino la Fao è stata costretta ad ammettere che dal 1990 al 2015 ben 216 milioni di persone hanno smesso di patire la fame. Analoghi dati vengono dalla Banca mondiale, che ha evidenziato come quanti vivono sotto la soglia della povertà siano la metà rispetto a quindici anni prima.

I successi della globalizzazione non possono sorprendere, poiché la civiltà si sviluppa grazie agli scambi, alla divisione del lavoro e alla specializzazione. Integrare le diverse economie permette di realizzare tutto questo a un più alto livello. Il boom economico di Paesi come la Cina, l'India, il Vietnam e la Thailandia è in larga misura la conferma empirica di questa verità ben nota. Alle conquiste conseguite dai Paesi più poveri, si sommano i benefici per quelli più ricchi. Se in questi anni in Europa il livello generale dei prezzi non è cresciuto a dismisura a dispetto delle politiche monetarie (nonostante, insomma, la massiccia emissione di euro) è perché abbiamo potuto beneficiare di beni e servizi provenienti dai Paesi asiatici, dove la manodopera costa molto meno.

Eppure, oggi, vi è un vasto consenso sull'opportunità di lasciarsi alle spalle la globalizzazione. Per quale motivo?

Sul piano politico e culturale, tutto è mutato quando tesi che prima erano sostenute quasi soltanto dai gruppetti dell'ultrasinistra sono state fatte proprie dai movimenti populisti di massa. Lo scenario è cambiato a causa della consonanza su questi temi fra Trump e Naomi Klein, fra Matteo Salvini e i centri sociali, fra Marine Le Pen e José Bové. È comunque evidente che questa condivisa avversione per il libero scambio si basa anche su alcuni equivoci.

Nel suo celebre libro del 2002, La globalizzazione e i suoi oppositori (ora aggiornato, e riedito da Einaudi, per tenere conto della «novità Trump»), l'economista Joseph Stiglitz ha sviluppato la sua accusa a partire da un'analisi delle politiche del Fondo monetario internazionale e di altre istituzioni analoghe. Sul banco degli imputati, di conseguenza, è finito un certo modo di gestire dall'alto l'economia, e non già lo spontaneo sviluppo di relazioni contrattuali fra individui e imprese. Anche quanti a destra criticano la globalizzazione spesso focalizzano l'attenzione sull'Unione europea o su altri soggetti politici sovranazionali, e non già sugli scambi. Il risultato è che rigettiamo una globalizzazione che, in realtà, non abbiamo mai davvero compreso nella sua natura.

In termini schematici si può dire che nei decenni Clinton-Bush-Obama abbiamo avuto una positiva tendenza ad aprire i mercati, accompagnata però da una negativa attitudine a rafforzare i poteri sovranazionali. La crescente insofferenza nei confronti dei gruppi dirigenti è nata soprattutto da ciò. In tal senso, la Brexit ha rappresentato lo spartiacque fra il vecchio mondo e il nuovo. Il guaio è che l'uscita del Regno Unito dall'Unione sembra essere accompagnata anche da una qualche estromissione dei britannici dal mercato europeo. Di conseguenza ora abbiamo una corretta predisposizione a mettere in discussione i super-poteri globali, ma tutto ciò è accompagnato dalla volontà di chiudersi entro i vecchi recinti ottocenteschi, senza comprendere le implicazioni di una tale scelta in termini di libertà e prosperità. Ogni intralcio agli scambi internazionali è infatti pericoloso, non solo perché abbiamo bisogno di trarre beneficio dai prodotti altrui, ma anche perché ogni limitazione del diritto a commerciare lede lo stesso diritto di proprietà, senza il quale la libertà individuale non è neppure pensabile.

È poi necessario comprendere che non c'è alcun nesso tra globalizzazione e Unione europea, tra il libero mercato e i poteri sovranazionali. Al contrario, la logica più squisitamente occidentale vuole governi locali (e quindi niente super-Stati, e nemmeno Stati nazionali) e mercati globali (e quindi nessun protezionismo). Ben pochi, però, sembrano capirlo e già ne paghiamo le conseguenze, dato che l'economia mondiale sta iniziando a soffrire per le guerre commerciali e anche la pace appare assai meno al sicuro. Se invece si riuscisse a localizzare i poteri e a metterli in competizione tra loro, assisteremmo a un ridimensionamento della politica e della sua capacità di dominare la nostra esistenza.

Nel nuovo populismo europeo e americano si mescolano tante cose, tra loro molto diverse.

Un tratto cruciale, però, sembra essere il riemergere di un pericoloso nazionalismo che avversa sia il libero mercato, sia l'autogoverno locale. Ma se non sapremo restituire autonomia e responsabilità alle nostre città, sarà difficile riuscire a costruire un ordine economico più aperto e un ordine politico più liberale.

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