Allievo di Renzo Piano, poco incline a concedersi ai riflettori, Mario Cucinella è uno dei grandi architetti a livello internazionale, curatore del Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia nel 2018. Suoi alcuni tra i progetti più belli costruiti e in costruzione in Italia, in cui la contemporaneità espressa negli edifici dialoga in modo raffinato con le persistenze dei luoghi: la torre di Unipol a Porta Nuova a Milano è in via di completamento, un monolite di acciaio bianco e vetro, che completa il nuovo skyline della città.
Dunque non è più tempo di Archistar, come suggerisce il libro Placemaker di Elena Granata.
«Non sarei così tranchant: l'architettura a partire dagli anni Novanta si è globalizzata e i grandi architetti sono diventi per necessità delle icone internazionali, spesso delle star, anche se bisogna tener conto che agli architetti va imputato soltanto il 2 per cento sul totale del costruito del mondo».
Tra le star ci sono soprattutto gli adepti del decostruttivismo?
«Mi sembra che quella del decostruttivismo sia una moda passata, anche se la rottura operata negli anni Ottanta era necessaria e ammiro il rigore con cui alcuni di loro, come Frank Ghery, hanno condotto la loro ricerca. Sono più dubbioso invece verso gli epigoni che hanno dato vita a una congerie di stravaganze, in cui si mirava per manierismo alla stranezza».
La critica attuale riguarda anche l'essere fuori contesto di molti edifici progettati dalle cosiddette archistar.
«In parte è vero, molti grandi architetti si sono focalizzati sul loro progetto, prescindendo dal luogo, o da quello che viene definito comunemente genius loci. Poi c'è stata anche molta retorica e una sorta di spettacolarizzazione dell'immagine architettonica soprattutto nelle presentazioni dei progetti, quasi competesse all'architetto costruire un mondo fiabesco intorno all'edificio, fatto di bambini e aquiloni: più che il sogno dell'architettura è stata coltivata l'illusione di un mondo nuovo».
Anche il concetto di verticalità pare superato e si torna a parlare di sviluppo orizzontale, si pensi al progetto di Stefano Boeri a Milano, dopo il bosco verticale quello orizzontale.
«In principio i grattacieli, pensiamo a New York, sono nati per motivi speculativi, nell'ottica di massimizzare i ricavi di una piccola superficie. Oggi preferire lo sviluppo verso l'alto dipende, proprio, dal contesto: in certi casi ha senso privilegiare la verticalità consumando meno territorio e concentrando la volumetria, piuttosto che pensare uno sviluppo infinito di costruzioni medio basse che impattano maggiormente e deturpano in modo peggiore il paesaggio».
Il libro di Elena Granata scommette sull'emergere di una nuova figura come il «placemaker».
«Mi sembra interessante: l'architetto in questi ultimi anni, soprattutto dopo che la pandemia ha modificato le esigenze abitative delle persone, dovrà
necessariamente cambiare il modo di progettare. L'antidoto a un'architettura fuori luogo è quello di lavorare per davvero con le comunità locali; credo a un approccio etico, a un'architettura che potrei definire civile».
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