Il viaggio di Gilgamesh è una fuga impossibile (e senza ritorno) dalla morte immortale

Il mitico re di Uruk è stato il prototipo di Ulisse. Ma è un eroe più tormentato

Il viaggio di Gilgamesh è una fuga impossibile (e senza ritorno) dalla morte immortale

Infine, siamo canne al vento. Questa è la verità. «La sorte ci stronca così, come canne... siamo proprio come le canne al vento... Siamo canne, e la sorte è il vento». Le parole che sigillano il romanzo di Grazia Deledda, Canne al vento (libro di cupa e biblica bellezza, che deve risalire la cruna del nostro canone), ricalcano quelle del sapiente sumero che qualche millennio fa ha cantato l'Epopea di Gilgamesh: «L'umanità è recisa come canne in un canneto. Sia il giovane nobile, come la giovane nobile sono preda della morte. (...) La morte malefica recide l'umanità». Questo è il nodo ultimo, inestricabile, della ricerca di «Colui che vide il Profondo... saggio in tutte le cose», Gilgamesh, prototipo di Ulisse, «un grand'uomo, straordinario giramondo» (così la versione di Emilio Villa, eresiarca in linguaggi), «l'eroe del lungo viaggio» che «vide molti paesi, conobbe molti uomini, soffrì molti dolori» (così Maria Grazia Ciani nella sua Odissea). La distanza tra i due eroi, tuttavia, è radicale: Ulisse conosce l'odore acre e inebriante della morte, è scaltro, distrugge metropoli e viaggia per fare ritorno a casa, arso dal desiderio di conoscere. Gilgamesh è un fondatore di città, tormentato da un solo, inquietante, tarlo: la morte. Perché si muore? E dunque: perché vivere se l'esito è il morire? Quando Enkidu, «progenie del silenzio... ricoperto di peli come il dio degli animali», unico amico di Gilgamesh, «l'alto, il magnifico, il terribile», muore, il sommo re è squassato. «L'angoscia è penetrata nel mio cuore! Ho paura della morte», ammette l'eroe, nel cuore dell'epos. Così Gilgamesh, l'eroe che sa aggiogare gli dèi e che rifiuta di sposare «Dama Ishtar», ingolosita dalla sua magnificenza, vaga per scoprire il segreto dell'immortalità, per vincere la morte, per dare a ogni atto un estro eterno. Le parole di Utnapishtim, l'uomo sopravvissuto al Diluvio - e che per questo è diventato immortale -, sono perentorie: l'uomo muore, questa è la sua dannazione, la benedizione.

Nel dicembre del 1916 un esagitato Rainer Maria Rilke scrive a Katharina Kippenberg - mecenate, audace, aiutava il marito, Anton, nella direzione della Insel Verlag -: «Gilgamesh è gigantesco!». Lo ispirava, quel poema babilonese, «l'epos della paura della morte»: l'aveva letto nella versione di Anton Ungnad, assirologo di stanza a Jena poi in Pennsylvania, del 1911. Vi trovava, è probabile, affinità agghiaccianti; nelle Neue Gedichte aveva scritto una poesia, Esperienza della morte, che attacca così: «Nulla sappiamo di questo svanire...». Tentava, di fronte a quella antichità senza fondo, la parola fondamentale, la rivelazione.

Proprio perché Gilgamesh è il poema della morte, narra l'amare, sfrenato. Enkidu, la creatura mostruosa, dei boschi, diventa civile quando è edotto all'amore da una prostituta: «Mentre i due insieme facevano l'amore,/ egli dimenticò la steppa in cui era nato». Dall'arte di amare nasce il desiderio della gloria, la necessità della lotta, l'agone per il sacro, l'agonia della mancanza. Gilgamesh ed Enkidu stringono un'alleanza dopo essersi sfidati: insieme sfidano le potenze supreme, irrompono nella Foresta dei Cedri, «la dimora segreta degli dèi», uccidono il guardiano, Humbaba, squarciano il Toro celeste, «e mentre percorrevano le strade di Uruk la gente si radunava per ammirarli». Ma il canto di gloria si svolge in nube di lacrime. L'eroe sovrano, «il migliore degli uomini», è piagato dal pianto, «piangeva amaramente vagando per la steppa», perché l'amico è morto, perché esiste la morte e la morte riduce la gloria a un refolo, inaridisce il potere in sfoggio inutile.

Comunque la raccontiamo, Gilgamesh (Adelphi, pagg. 310, euro 24) è il testo essenziale, il racconto dei racconti, che ci incunea nelle domande prime, ineluttabili, inesauribili: cos'è la morte, e dunque, cos'è la vita? Il poema rimane immenso, indomato, perché incenerisce l'etica - per quello basta il libro biblico dei Proverbi, per altro affascinante - in favore della lirica: le immagini sono plastiche, possenti, animali («Perfino gli dèi ebbero paura del Diluvio,/ si ritirarono e ascesero al cielo di Anu,/ accucciandosi come cani rannicchiati all'aperto./ Le dee gridavano come una donna durante il parto»). Alcune lasse poetiche - la ricorrenza dei sogni, che orientano i destini; il funerale di Enkidu («Ti piangano il cipresso e il cedro... ti piangano l'orso, la iena, la pantera, il ghepardo, il cervo e lo sciacallo»); il confronto dell'eroe con «l'uomo-scorpione» - ci cristallizzano nello stupore.

Adelphi aveva già in catalogo una versione dell'Epopea di Gilgame: quella, resa in prosa, nel 1960, da Nancy Sandars. Traduzione da traduzione di una riduzione non indimenticabile. Con questo volume poco cambia: Adelphi traduce la traduzione curata da Andrew George nel 1999. La resa è più efficace, anche per il puro curioso, eppure il lavoro di Giovanni Pettinato, grande assirologo, pubblicato nel 1992 da Rusconi e nel 2004 da Mondadori, resta più efficace, più rude, rovinosamente bello.

A differenza di Ulisse, Gilgamesh non ha una donna a cui tornare, né una patria autentica. Certo che il suo destino è morire, al termine del viaggio mostra a Urshanabi «il barcaiolo» le mura imponenti di «Uruk-l'Ovile».

«Per chi faticarono le mie braccia, per chi si prosciugò il sangue del mio cuore?», domanda l'eroe, ammirando la sua città. Il cielo leviga l'interrogativo, lo inghiotte. Forse Gilgamesh ha una rivelazione, miliare, micidiale. Se tutto muore, tutto è indimenticabile. Proprio perché tutto muore, tutto è immortale.

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