Ci sono i viaggiatori e ci sono i turisti. Detto così è un po' brutale, ma rende l'idea. Il problema è che nell'epoca del turismo di massa, dei voli low cost, del mondo interconnesso, volente o nolente il viaggiatore e il turista si confondono e fra loro si contaminano, a meno che il primo non si veda come un esploratore o un cercatore di record (la vetta inaccessibile, la foresta impenetrabile, l'ultima isola disponibile, l'ultima tribù ancora raggiungibile), il che trasforma però il viaggio in una spedizione o in una gara. Ci può stare, ma è un'altra cosa.
La letteratura di viaggio, quella dei tempi nostri, non sfugge alla confusione-contaminazione di cui sopra, fermo restando che, come ha ben riassunto Michel Onfray, «il viaggio comincia in una biblioteca o in una stanza». Xavier de Maistre, lo scrittore ottocentesco fratello del più noto Joseph, l'autore di Le serate di Pietroburgo, lo sapeva talmente bene che quando si ritrovò agli arresti domiciliari per via di un duello, si mise a osservare gli oggetti di casa e i ricordi da quegli oggetti provocati lo indussero a scrivere un libro delizioso che si intitolava, appunto, Viaggio intorno alla mia camera
Letteratura di viaggio è però un'espressione ambigua: scrivere di ciò che si è visto in giro ne fa parte, ma non è sufficiente. Come ogni genere ha le sue regole non scritte che chi lo pratica seriamente ben conosce, a partire da quella fondamentale di voler andare oltre il genere stesso Da Byron a Fermor, a Chatwin, a Thubron, per citare quattro inglesi campioni del mondo della specialità, nessuno di essi ha mai accettato l'idea di essere considerato un semplice travel writer: il viaggio, l'altrove, è il campo d'azione dove viene esercitata la scrittura, ma è questa il fine ultimo. Scrittura non vuol dire bella prosa, ma la messa su carta di un universo interiore cui concorrono stratificazioni di letture, incontri e conoscenze, freschezza d'occhio, curiosità, immersione nell'altro, sensibilità mitica. È tutto questo a far sì che, a distanza di tempo, si legga ancora, che so, Norman Douglas o Giacomo Casanova.
Citare quest'ultimo è emblematico, perché fra la fine del Settecento e tutto l'Ottocento, quando cioè il viaggiare comincia la sua lunga marcia dall'esplorazione erudizione scientifica alla narrazione-racconto soggettivo, il nostro diveniva un Paese sempre più sedentario e letterario e l'andare in giro a vedere una pratica intellettualmente non nobile, di seconda mano, al massimo un esercizio stilistico. Ancora sino alla prima metà del Novecento da noi è stato così, e questo spiega perché fra le due guerre siano stati i giornalisti-scrittori e non gli scrittori letterati a incarnarla al meglio, i Comisso, i Malaparte, gli Emanuelli eccetera. È con la nuova Italia del secondo dopoguerra che, lentamente, le cose sono mutate e un genere poco frequentato e in fondo sottostimato a cominciato con il mettere radici. Nel campionare questa nuova realtà, una decina d'anni fa un Meridiano Mondadori intitolato Scrittori di viaggio dalla metà Ottocento sino al Duemila trovò del tutto naturale inserirvi fra i suoi campioni il duo Syusi Bladi-Fabrizio Roversi, meglio noti all'epoca come i Turisti per caso di una fortunata serie televisivaHanno lasciato traccia? Ne dubito, però stanno in un'antologia dove è assente, per fare soltanto un nome, Tiziano Terzani
Queste riflessioni mi sono venute alla mente leggendo un libro intrigante quanto elegante che si intitola Giornale di un viaggiatore ordinario (Tabula fati editore, 221 pagine, 16 euro). L'autore, Giuseppe Del Ninno, è uno scrittore di lungo corso: ha scritto a più riprese di cinema, un suo racconto vinse il premio Giallo Mondadori e poi si trasformò in un romanzo, La vedova, la sua ultima silloge poetica, Nei dintorni dell'anima, ha la significativa prefazione di Giuseppe Conte.
Del Ninno prova un po' a rovesciare, meglio ad ampliare, l'assioma da cui siamo partiti. Se c'è un viaggiatore ordinario, come da titolo, spiega, è perché al suo opposto esiste quello straordinario e che a lungo è stato anche l'unico sulla scena. «I fortunati mercatores cantati da Orazio, i pellegrini medievali diretti in Terra Santa o a Santiago de Compostela, i naviganti e gli esploratori dei secoli dal XV al XVIII secolo, i protagonisti privilegiati del Grand Tour e, per arrivare sino a noi, gli inviati speciali di giornali e televisioni».
La «straordinarietà», a detta di Del Ninno, può essere connotata da «rischi e asperità», ma si tratta di condizioni non necessarie né sufficienti. Si può essere infatti «mossi da spinte esistenziali, come nel caso di Bruce Chatwin o di Alexandre David Neel, o semplicemente letterarie (e qui ci limitiamo a ricordare i Marocco e la Istambul di Edmondo De Amicis, l'India di Moravia, l'Africa di Pasolini)».
In realtà, oggi come oggi, osserva ancora, la «straordinarietà» è legata al tempo, al suo poterne disporre. Non solo il mondo è diventato piccolo per tanti, «grazie alla mobilità agevolata dagli strepitosi progressi della tecnica in pochi decenni», ma oltre a essersi accorciati tempi di percorrenza, si sono ridotti i tempi di durata: «Le esigenze della produzione universale non consentono assenze se non per pochi giorni o, al massimo, settimane». La straordinarietà, dunque, sta nell'avere tempo a disposizione, l'unico vero lusso di cui la società dei consumi e insieme dello spreco ha eliminato dal proprio orizzonte.
Se è così, si ritorna però al punto di partenza, come lo stesso Del Ninno ammette con franchezza. «A dire il vero, la più genuina contrapposizione sarebbe quella fra i viaggiatori straordinari -quasi sempre definiti semplicemente viaggiatori- e i turisti». Ciò che li differenzia, non sono i rischi, le scomodità, l'unicità della meta (c'è una florida branca del turismo di massa che va sotto l'etichetta proprio di turismo avventuroso) ma il fatto che i secondi si muovano in gruppo e in un movimento preorganizzato e come tale poi rigidamente scandito: nelle soste, nelle visite, nei pasti, eccetera. Più che viaggiare, sono viaggiati per dirla in orribile italiano.
In realtà, quello di Del Ninno più che Il giornale di un viaggiatore ordinario come recita il titolo, è il diario di un turista straordinario ed è qui non solo la sua ragion d'essere, ma la sua freschezza narrativa, la sfida cioè a trasformare il turismo in un'altra cosa, ovvero a dargli una dignità letteraria. Turisticamente, l'autore non si rifiuta niente, nemmeno una crociera sul Mediterraneo occidentale, e dall'Egitto a San Pietroburgo si muove all'interno di quelle che sono le rotte classiche dei viaggi organizzati, «la dura vita del turista», come ironicamente sottolinea. Ciò che li differenzia è l'occhio, starei per dire il colpo d'occhio letterario ed emotivo che spinge il lettore all'immedesimazione, al ricordo personale di un viaggio che appartiene a ciascuno. Come riassume perfettamente il suo autore: «Ecco cosa mi era sfuggito di quella piazza di Palermo o di Marrakesh; sì, anch'io ho provato quelle sensazioni davanti alle piramidi di Giza; oppure, mi sono perso la visita nelle case e nelle strade frequentate da personaggi letterari come Don Chisciotte e Raskolnikov; o reali come Cechov e Karen Blixen, e via enumerando possibilità; così da portarsi dietro e alimentare curiosità e rispetto per luoghi, storie, civiltà altrui».
Del Ninno fa insomma letteratura con l'ordinarietà che il viaggio turistico gli offre e con la consapevolezza che è lo stato d'animo, la capacità d'ascolto a fare la differenza. «Conferme, smentite, sorprese: non è questo in fondo che chiediamo ai nostri viaggi?».
Si veda, per esempio, come un viaggio a Fatima, dove sentimenti e affari, religiosità e turismo di massa fanno un tutt'uno, si concretizzi nella visione dei cani randagi della città che «per l'intera durata di una messa solenne e di una fiaccolata se ne restarono quieti in mezzo ai fedeli, senza abbaiare né uggiolare e senza azzuffarsi. Una curiosa, sorprendente devozione. Cani che arrivano dove esseri umani non riescono ad arrivare». Oppure si veda, in un viaggio in Turchia datato 2003, quando cioè ancora la Turchia si ostinava a bussare alle porte dell'Europa, una fulminea osservazione: «Molte moschee con i minareti a matita: ma non sono un po' troppe per un Paese che, a ogni piè sospinto, si definisce laico?». O in Russia, nel 2004: «Mosca si annuncia con i suoi falansteri di periferia.
Ecco due torri, inconfondibili torri di una centrale nucleare, così vicine alla città; il comunismo è stato, è anche questo: la tecnica sommata alla miseria».Se fossi un turista, mi porterei dietro questo Giornale di un viaggiatore ordinario come un baedeker educativo.
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