da Venezia
Dodici astronavi a forma di giganti bozzoli si piazzano sopra la terra, dal Montana alla Cina, al Sudan, alla Russia. Per capire di che cosa si tratta, negli Stati Uniti viene formata una squadra speciale di esperti tra cui il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e l'esperta linguista Louise Banks (Amy Adams) prelevata a casa dal solito burbero colonnello dell'esercito (Forest Whitaker). È l'inizio di Arrival di Denis Villeneuve presentato in concorso alla 73a Mostra d'arte cinematografica di Venezia. Sensazione di déjà vu? Sì, naturalmente. Sono decine i film che mostrano quasi le stesse sequenze. Addirittura i nostri fratelli Manetti nel 2011 in L'arrivo di Wang hanno immaginato una interprete dal cinese davanti a un alieno che parla solo quella lingua (è curioso, anche in Arrival il cinese avrà una certa importanza).
Però. C'è un però. Dietro la macchina da presa c'è Denis Villeneuve, l'interessante regista canadese che negli ultimi anni ha sorpreso per l'approccio originale a generi diversi, da La donna che canta a Prisoners a Sicario. Così alla fine anche Arrival si smarca dal già visto intessendo un discorso profondo e complesso sul tema del linguaggio che può essere allo stesso tempo forma di incontro o di scontro. Il regista proprio in questi giorni è impegnato nelle riprese del sequel di Blade Runner 2 e così non è potuto essere a Venezia. Ad accompagnare il film oltre a Jeremy Renner è venuta la protagonista assoluta, Amy Adams, che riesce a delineare un personaggio molto commovente di una madre che ha perso la figlia malata e attraverso l'esperienza con gli extraterrestri riesce a trovare le risposte che cercava. «Quando mi hanno proposto la sceneggiatura - dice l'attrice che a 42 anni ha già ottenuto cinque nomination all'Oscar (Junebug, Il dubbio, The Fighter, The Master e American Hustle) - l'ho letta tutta di fila e mi sono commossa perché la storia di questa donna mi ha fatto provare compassione e dolore».
Arrival, che uscirà in Italia il 24 novembre e che è prodotto anche da Shawn Levy, una delle menti dietro il recente e sensazionale successo della serie tv per Netflix Stranger Things, utilizza il genere fantascientifico per raccontare qualcos'altro: «Il linguaggio, ed è l'aspetto che più mi ha affascinato. Ma sono rimasta molto colpita anche dalle svolte della madre, dalle decisioni che prende. Sono tutte cose che mi porto ancora oggi con me». Così il tentativo della donna di parlare con questa specie di poliponi giganti fa venire in mente Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg che Amy Adams dice di aver visto da ragazzina anche se - ammette - «il mio film di fantascienza per antonomasia è E.T. l'extra-terrestre, ma a pensarci bene in effetti quello della comunicazione è un tema comune che percorre un po' tutti questi film. Arrival forse lo fa in maniera ancora più cerebrale».
Film di fantascienza con pochissima azione, quasi una sorta di manifesto anti Independence Day di Roland Emmerich, Arrival non ha visto per gli attori particolari difficoltà durante le riprese.
Anche se Amy Adams ama ricordare un aneddoto che ci riporta nuovamente al tema del linguaggio: «Dovevo dire quattro battute in cinese. Le avevo imparate bene. Ma il mandarino è così armonico e complesso che mi sono bloccata. In altre situazioni se ho uno smarrimento ho appigli visivi da cui ricominciare. Con il cinese invece il buio. Quanta fatica!».
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