Che cos'è un diario se non una forma di confessione? Ma non è detto che una confessione, per quanto accorata, sia sincera. È davvero la sincerità la misura della verità di una confessione? Quanto siamo, o possiamo essere realmente sinceri, prima ancora che con gli altri, con noi stessi? Ci pensavo leggendo l'ultimo libro di Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento (Inshibboleth, pagg. 170, euro 15), forse il suo libro più importante. Di Consoli ha qui raccolto il suo diario quotidiano, solo apparentemente composto di pensieri frammentari (che oscillano tra ricordi ed esperienze, tra riflessione civile, sociale, culturale e rapporti amorosi, siano questi con una donna, con i figli, con gli amici). In realtà nasconde un disegno, che è un disegno potremmo dire empirico, o istintivo, ma che pure non si allontana mai dalla necessità che vuole far emergere. È un diario scritto sulla sua pagina Facebook e che ha attratto subito l'attenzione di molte persone. Quindi non si tratta di un diario propriamente privato, è invece il contrario: è stato pensato già come qualcosa di pubblico. Ma che tipo di sincerità si può esprimere pubblicamente? Forse la sincerità cade nel momento stesso in cui si sceglie, volontariamente o meno, quale ruolo assumere in pubblico; o meglio, quale persona si decide di essere agli occhi altrui.
Diciamo però le cose come stanno: la sincerità è un falso mito, un mito tutto contemporaneo. L'importanza di questo libro nasce da qualcosa di diverso, di più profondo della sincerità. Anche quando ci sembra di metterci realmente a nudo, di parlare col cuore in mano, a emergere è sempre ciò che desideriamo essere. Ma emerge perché abbiamo bisogno di custodire ciò che, per la nostra vita e la nostra sopravvivenza, più conta. Qualcosa che non ha certo a che fare con uno spirito di conservazione, ma con un dolore taciuto e che muove, a guardare bene, anche i nostri desideri. L'importanza del libro è in quello che non esprime o non può esprimere apertamente, o che capiamo rimanere custodito attraverso quanto Di Consoli appunta di pagina in pagina.
C'è qualcosa che ha sempre interessato il lavoro e la sensibilità stessa di Andrea Di Consoli, fin dai racconti di Lago negro (2005), arrivando ai suoi maggiori romanzi, e penso a Il padre degli animali (2007) e La collera (2012), ovvero fare i conti con la parte più bassa dell'umanità. Non dico con la volgarità dell'uomo, ma il punto in cui un uomo, precipitando, perde nello stesso tempo ogni strumento di difesa dal mondo. È l'uomo non umile ma umiliato che gli interessa, ma di questo non prova alcun godimento estetico. Piuttosto è una verifica sul senso che egli dà alla vita di ogni essere umano - quando l'uomo, rimasto solo, è incapace di tradire la dignità di quanto più profondamente conserva. È in questo il senso della confessione che si nasconde dietro le pagine di Diario dello smarrimento.
Se esiste ancora il genere umano, è perché esistono infinite solitudini che, nella disperazione, proteggono un senso di colpa da cui non sembrano volersi liberare - colpa per i desideri e le speranze tradite, per il male inflitto, per le delusioni arrecate ad altri e a se stessi, insomma, la colpa di non essere mai pronti e capaci di vivere. Un senso di colpa personalissimo e comune che non abbrutirà mai fino in fondo, perché è la sola cosa che, pure nella solitudine, rende gli uomini fratelli.
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