In quelle palazzine tutte uguali di Cinecittà stanno premute assieme almeno trecento anime. Gente che si scambia pezzi di vita per ragioni di forza maggiore: addensati in alveari brulicanti, non è che abbiano altra scelta. Questo fazzoletto di terra e cemento popolare è intriso di un’identità sedimentata nel tempo. Sono tutti romanisti. Tutti. Pessimo tempismo, dunque, abitare nel bel mezzo di un'enclave giallorossa con un padre patologicamente dipendente dalla Lazio. Il ragazzo però sa gestire con disinvoltura la pressione.
Il biancoceleste inizia a mescolarsi così nelle vene di Alessandro Nesta. Il fratello vuole giocare a pallone. Lui inizia a frignare, chiedendo di poter fare altrettanto. Assecondato. Stavolta il tempismo è quello giusto. L’intuizione feconda. Comincia come ala, con la voglia di rivalsa che monta dalle viscere, eredità inconfondibile di chi cresce in contesti svantaggiati. Più tardi la classificherà più precisamente come “maggiore dose di furbizia acquisita per strada”.
Da bordocampo, dopo aver inspirato un paio di boccate avide da un mozzicone fumante, un boemo dall’aria perennemente perplessa lo chiama con un cenno del capo. “Ascolta, non sei un'ala. Sei un difensore centrale. Ora tu giochi qua, sarai il titolare della Lazio”. Una sliding door con su incisa la scritta “Stringere la mano a Zdenek Zeman, grazie”. Nesta non ci dorme per diverse notti. Inspira l’aria frizzante della capitale affacciato alla finestra, la testa che è un groviglio inestricabile. Il pensiero di quella responsabilità così ingombrante lo assedia senza sosta. Preoccupazioni infondate: in quelle zolle di campo, in quell’Olimpico accarezzato tante volte in sogno, ci prenderà casa.
L’inizio però rischia di essere frastornante. In allenamento entra duro su Paul Gascoigne, venerato come oggetto di culto vivente a Formello e dintorni. L’eccentrico asso britannico si frattura tibia e perone. “Corsi a ripararmi a Civitavecchia - ricorda Nesta - perché i tifosi mi volevano ammazzare. Gazza non solo mi difese, ma mi regalò anche due canne da pesca (gesto nonsense pienamente nel suo repertorio, ndr). Peccato che non abbia mai imparato a pescare”.
Quanto a difendere, invece, ci sapeva fare benissimo. Anzi: Alessandro Nesta ha incarnato - nel suo periodo laziale - il prototipo del difensore definitivo. Il repertorio è sconfinato. Possiede un senso della posizione memorabile. L’anticipo come caratteristica genetica. Imperiosi stacchi di testa. E poi quella scivolata: arte maneggiata con cura da pochi altri eletti - leggasi alla voce Maldini e Cannavaro - olio su tela che racconta coraggio da vendere e letture prodigiose. Lo scatto è disarmante, il vigore e la pulizia degli interventi una combinazione letale. Il tutto, condito da un’eleganza esondante nelle movenze. Avventurandosi in un paragone faunistico, Nesta è un cigno che dispiega ali poderose davanti all’area di rigore. Una simile e inaudita grazia bagna pochi eletti. La categoria, per intenderci, è la stessa in cui si ascrive il nome di Roger Federer. L’edonismo applicato ad una brutale efficacia: un mix che borseggia i cuori praticamente da sempre.
I centravanti - e come biasimarli - tentennano e preferiscono fare giri larghi. Non che serva a molto: Nesta li scova sempre, ergendosi a invalicabile muraglia umana. Qualità da fuoriclasse che issano verso l’alto la Lazio, facendo sollevare trofei in passato completamente implausibili.
Rimuginarci sopra è un esercizio asfittico. Certo, è stato fenomenale anche al Milan. E in nazionale, per quanto costantemente sgambettato dalla malasorte. Ma nel suo periodo biancoceleste ha contemplato tutti da due spanne più su.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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