Lui c'era. E non poteva essere altrimenti, visto quello che sarebbe diventato dopo. Il 13 maggio 1950, giorno in cui la Formula 1 cominciò la sua avventura a Silverstone, nel vecchio aeroporto militare trasformato in circuito e in «Home of British motor racing» come racconta una targa all'ingresso, Bernie Ecclestone era lì. Non a ricevere Re Giorgio VI e la Regina Elisabetta come avrebbe fatto con i tanti reali di tutto il pianeta venuti in visita negli anni, ma a correre. Il giovane Bernie non aveva compiuto vent'anni e sognava ancora di diventare un pilota. «I was there. Io c'ero. E non solo ero lì, ma correvo. Non partecipavo alla gara principale, ma in quelle che venivano chiamate Support races, la Formula 500, la Formula 3 di oggi. Con me in pista c'era anche Stirling Moss, lo ricordo benissimo». Pilota, manager, team principal, proprietario di scuderie, proprietario di tutto il carrozzone rivenduto nel settembre 2018 per 8 miliardi di dollari: Bernie Ecclestone in una sola vita è stato tutto questo. E non ha ancora finito di stupire, anche oggi che è impegnato in una sfida umanamente ai limiti del possibile. La voce di mister E arriva chiara a forte dal Brasile dove è al sicuro nella sua piantagione di caffè nella zona di San Paolo. «Qui la situazione è drammatica, la gente continua a morire i politici a non capire. Voi in Italia state ripartendo, vi auguro che vada tutto bene. Noi adesso abbiamo più morti di voi e rischiamo di raggiungere l'America. Noi stiamo bene, ma tutto attorno c'è tanta gente che sta male. Preoccupante». Bernie compirà 90 anni il 28 ottobre, ma prima ha un altro appuntamento con la storia. Diventerà padre per la quarta volta. Dopo tre figlie, due delle quali abituali frequentatrici delle pagine di gossip, arriverà un maschietto grazie all'ultima (la terza) moglie, l'avvocato brasiliano Fabiana Flosi, conosciuta ovviamente ad un gran premio, che di anni ne ha soli 45. D'altra parte per un uomo che ha avuto una moglie alta il doppio di lui, non sarà un problema averne una con la metà dei suoi anni.
Congratulazioni Mister E, ha già scelto il nome del primo erede maschio?
«No, non è semplice scegliere il nome che poi una persona si deve portare dietro per tutta la vita. Sarebbe meglio dargli un numero. Chiamarli con un numero, poi far scegliere a loro il nome quando compiono 18 anni».
Un numero come un'auto da corsa, allora è un vizio.
Risata. «Non sarebbe male».
Però a lei è andata bene, Bernie è facile da ricordare.
«Sono stato fortunato, sto bene con il mio nome. Ma non sarebbe semplice portarlo per mio figlio».
Come trascorre le sue giornate brasiliane alla fazenda?
«Lavoro come ho sempre fatto in vita mia. E poi chiacchiero al telefono. Mi chiama ancora un sacco di gente del mondo delle corse».
Non ci dica che la rivorrebbero al comando?
«Se anche qualcuno mi volesse e qualcuno c'è... Non mi avrebbero».
La Formula 1 compie 70 anni, lei c'era già la prima volta... Che cosa ricorda?
«All'epoca ero solo un adolescente, e fu un'esperienza emozionante essere in un circuito del genere e correrci pure. C'era un mare di gente anche se non c'erano le tribune che abbiamo in mente oggi. E poi quelle auto italiane rosse, quelle Alfa Romeo, che dominarono la gara».
Il prossimo gran premio sarà il numero 1019, quanti ne ha visti dal vivo?
«Settecento, forse di più».
Avrebbe pensato quel giorno che in settant'anni la Formula 1 avrebbe potuto migliorare così tanto?
«Non so se sia giusto dire che è migliorata o se era meglio allora. È qualcosa di completamente diverso, non c'è quasi nulla in comune. A parte Alfa Romeo, Maserati e poi Ferrari c'erano tantissime auto iscritte da privati, oggi non è più possibile. L'unica cosa in comune è che tutti volevano vincere la gara».
Le piace ricordare quei tempi?
«Sì, perché a quei tempi la Formula 1 era ancora uno sport da gentleman appassionati, non un lavoro per fare soldi. Team e piloti erano orgogliosi di farne parte. Nessuno pensava che sarebbe potuto morire. Tutti mettevano da parte quei pensieri».
La Formula 1 è ancora uno sport o ormai è un business?
«Anche a quei tempi era comunque un business. Chi aveva i soldi e voleva correre poteva permettersi di correre. Oggi ovviamente il business si è molto allargato perché lo sport costa molto di più. Sì è un business».
Qual è stato il suo maggior merito?
«Ho avuto ottimi aiuti e incontrato brave persone. La cosa più importante è stata forse aver attirato le televisioni di tutto il mondo. A quel tempo, trasmettevano solo la gara di Monaco. Io volevo che trasmettessero ogni gara e le comprassero come un pacchetto. Non ho idea di come ci sia riuscito. Ero solo un semplice rivenditore di auto. Probabilmente ho venduto la Formula 1 come un buon rivenditore di auto usate».
Con la Formula 1 è diventato uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra?
«È vero, anche se non l'ho mai fatto solo per fare soldi. Per me fare affari era una specie di competizione. Più ci riuscivo, meglio mi sentivo. Il fatto che mi facesse diventare ricco era solo una conseguenza, ma non la spinta. La mia ispirazione è stata quella di rendere possibile l'impossibile...».
Pensa che sia una buona idea mettere un budget cap alle squadre per limitare i costi?
«Credo sia un po' stupido. Ho parlato nei giorni scorsi con Christian Horner. Quando mi raccontano che il bugdet di un team oggi lo vogliono limitare a 140/150 milioni... Sono completamente matti, sono cifre che spende un team medio. In Formula 1 ci sono sempre stati team ricchi e team senza soldi. Mi ricordo che quando gestivo la Brabham, non eravamo certo un team ricco, la Ferrari ha sempre avuto un budget tre, quattro volte più grande del nostro o di quello della Lotus»
E voi riuscivate a vincere lo stesso, ma oggi vincono sempre gli stessi.
«Di mondiali ne abbiamo vinti un po', sia noi che la Lotus. Potevamo vincere tutti, oggi è diverso. A quei tempi contava di più il talento della gente che c'era nel team, oggi una squadra è composta da così tante parti diverse che se una di queste non funziona, non puoi puntare al successo».
Si può quasi azzardare nel dire che in passato era più un one man show che uno sforzo di squadra.
«Esattamente».
A proposito, perché nelle ultime interviste ha molto criticato Binotto, ce l'ha con lui?
«Non ho parlato male di lui. Ho solo detto che è un super, super ingegnere in Ferrari da tantissimo tempo e che conosce tutto della Ferrari. Ma è una cosa differente essere ingegnere e essere team principal. Un manager deve essere spietato per raggiungere i suoi obbiettivi. E invece credo che lui sia molto sensibile e davvero un nice guy. Ma per fare quel lavoro ci vuole gente come Todt o Toto, caratteri diversi».
Lei ha sempre suggerito Briatore alla Ferrari...
«Ho sempre pensato che Flavio sarebbe stato la persona giusta per la Ferrari. Se Flavio vede qualcuno bravo in un'altra squadra se lo prende. Non so se Binotto farebbe lo stesso, dovendo lasciare a casa uno dei suoi».
Passiamo ai piloti. C'è qualcosa in comune tra i piloti degli anni Cinquanta e di oggi?
«Per niente. I piloti di quell'epoca avevano più talento nella guida, non avevano nessun tipo di informazione. Salivano in macchina e la dovevamo spingere al massimo. Oggi sanno tutto della loro auto e di come cambia durante una corsa. Sanno tutto delle gomme. Sanno di come cambierà il tempo, se pioverà o no. A quei tempi magari non sapevano neppure in che posizione erano in gara e dovevano capire da soli tutto di gomme, cambio, motore. Oggi sanno tutto della loro auto e anche di quelle degli avversari. È completamente differente».
Chi è stato per lei il migliore in questi primi 70 anni?
«Io ho sempre detto Prost perché è stato uno degli ultimi, almeno ai suoi inizi, a guidare un'auto senza tutte quelle informazioni che dicevo prima. Andando indietro credo si debba includere Stirling Moss e Fangio. Ma sono tempi diversi, auto diverse. Mi chiedo quei ragazzi potrebbero vincere oggi? Probabilmente no, perché oggi per guidare devi essere più o meno un computer e quella era gente che se ne fregava dei computer: voleva solo guidare».
E i piloti di oggi potrebbero vincere con le auto di ieri?
«Vale lo stesso discorso. Magari le considererebbero anche troppo pericolose per salirci».
Come giudica Schumacher o Senna?
«Diversi. Se Ayrton fosse sopravvissuto avrebbe vinto molti più campionati di quelli che ha vinto e forse Michael ne avrebbe vinti meno. Michael era un po' arrogante, pensava sempre di essere meglio lui della macchina e non conosceva i limiti, però...».
Però era un vincente.
«Diciamo che eri sicuro che avrebbe portato a termine il lavoro che gli avevi dato da svolgere».
E Hamilton dove lo inserirebbe?
«Lewis è very, very, very (lo ripete tre volte) talented. Ha avuto una squadra molto, molto, molto (altre tre volte) forte dietro di lui. La miglior auto, la miglior organizzazione. Un po' come accadde con Michael. Ma se devi nominare i primi cinque piloti di sempre devi inserire Lewis tra di loro».
Tra i tanti piloti che ha conosciuto e non ci sono più, oltre a Senna, le mancheranno molto anche Rindt e Lauda?
«Di Jochen mi piaceva il carattere. Gli dicevo: sali in macchina solo quando ti hanno pagato. A lui piaceva. Veniva spesso a casa mia in Inghilterra e mi faceva vedere i soldi che aveva incassato. Niki era una persona speciale, è tornato in pista che ancora sanguinava e poi ha vinto ancora. Sapeva cosa dire e anche come e quando dirlo: non si tirava mai indietro quando aveva qualcosa da dire».
Crede che la Formula 1 possa esistere senza Ferrari?
«Non potrei mai immaginare la Formula 1 senza la Ferrari. La Formula 1 è la Ferrari e la Ferrari è la Formula 1. Potrebbe succedere, ma proprio io non riesco a immaginarmela».
Il sito della F1 sta facendo votare il personaggio più influente dei 70 anni di storia. È stato Enzo Ferrari?
«Io credo che le due persone più importanti nella storia della Formula 1 siano state Enzo Ferrari e Colin Chapman. Con Ferrari in un modo molto funny eravamo amici. Mi ha sempre supportato anche se ogni tanto fingevamo di farci la guerra. Sono state due persone davvero speciali».
Come giudica l'operato di Liberty Media?
«È perfino complicato dare un giudizio perché quando hanno acquistato la Formula 1 hanno detto che c'erano un sacco di cose da cambiare, fare molte più gare, fare un sacco di cose e dopo tre anni hanno cambiato solo il logo. Sono curioso di vedere come cambieranno le cose in futuro».
Crede che la Formula 1 ripartirà quest'anno?
«Credo che ripartirà in Austria a luglio e possa riuscire a organizzare 18 gare. Sarebbe un bene per tutti. La gente vuole veder ripartire il calcio, i motori, il mondo».
La F1 sopravvivrà al virus?
«Sì perché è più grande degli individui. Era necessario atterrare sulla luna? Ha dato da mangiare agli affamati? No, ma l'umanità ne è ancora affascinata oggi. Le persone hanno bisogno di eroi.
I piloti da corsa, in particolare i piloti di Formula 1, sono in qualche modo astronauti da ammirare. Ayrton Senna ne è il miglior esempio. Ha portato luce e coraggio anche nelle vite dei più poveri qui in Brasile e oggi di questo abbiamo bisogno qui più che mai».
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