«Amici italiani in ascolto qui è Niccolò Carosio che vi parla e vi saluta...». si chiamava Nicolò Caroso anzi «Niccoloccarosio», era un palermitano affilato e coi baffetti da Zorro. Si esercitava nel retrobottega di un piccolo negozio di radiofonia e un giorno scrisse all’Eiar per offrirsi come radiocronista. Gli risposero con un telegramma: «Disposti accettare sua offerta preghiamola confermare telegrafo sua venuta primo maggio Torino, rimborso lire 250 totali. Cordialità». Per superare il provino s’inventò di sana pianta un Juventus-Bologna pieno di gol. Piacque, ma il suo debutto, al Littoriale di Bologna amichevole Italia-Germania, capodanno del 1933 fu terrificante. Cominciò a parlare solo dopo due minuti di agghiacciante silenzio. Poi non si fermò più. Nicolò Carosio, il padre di tutti i radio e telecronisti, se ne andò il 27 settembre di trent’anni fa a 77 anni. E noi vogliamo ricordarlo con l’addio, bellissimo, firmato sul «Giornale» il giorno della scomparsa, dal grande Giovanni Arpino.
«Addio carissimo, inimitabile, ironico amico Nick: sei stato unico. Sei stato il più credibile, anche quando ci ingannavi tutti con il tuo celeberrismo «quasi gol». La Rai, già orfana Eiar, dovrebbe farti un monumento, proprio lei che ti costrinse a tanti processi (tutti vinti, negli ultimi anni eri tu a consigliare i tuoi stessi avvocati).
Nicolo Carosio, ovvero «la Voce» sportivamente parlando. Ci haaccompagnato per oltre quarant’anni di radiocronache e telecronache, l’occhio velato, il baffo da ufficiale inglese, magari un «whiskaccio» a portata di mano, la passione sempre viva, le imprese effimere dei giocatori sull’erba che si traducevano in concetti, geometrie sonore, rendiconti ora conditi dal tifo e ora distaccati in qualche rampogna paterna. Un vero mito, ma dentro di sè, sostenuto da un suo personalissimo filo di ferro. Questo è stato Nick, gentile e corretto, ma anche fierissimo. Conosceva ogni magagna del gran baraccone pedatorio, ma la scavalcava per una sorta di civile fatalismo; lo sport, come l’uomo, non è mai puro, e se lo pretendi tale sei solo uno sciocco. É stato popolare almeno quanto Meazza, Coppi, Valentino Mazzola. Se in un ristorante riconoscevano la sua voce era subito festa, alla quale Nick si sottraeva per una sua ritrosia da gentiluomo. C’è chi ricorda di alcuni importanti fatti calcistici, o ritenuti tali, non le cifre, ma un grido, una sillaba, una tonalità di Carosio.
Inventò la radiocronaca delle partite di calcio derivandola da quelle inglesi e per persuadere i funzionari della radio a Torino negli anni trenta, ne recitò una, improvvisando sul nulla: raccontò infatti un «derby» che non si stava certo giocando quel giorno, a quell’ora e negli uffici dell’ente statale. «La Voce» dunque nacque da se stessa, e così le manovre sulle fasce laterali, lo spiovente, il gol padre del futuro «quasi gol».
La tecnica, anzi il modello Carosio, costrinsero tutti gli altri colleghi commentatori a ritagliarsi un ruolo diverso, perchè Nick non lasciava eredità sfruttabili, era il solo in grado di trasformare novanta minuti assai barbosi in un tempo-spazio di tensione, di attesa. C’era chi attendeva non la descrizione di una «galoppata» palla al piede ma qualche invenzione carosiana tipica: il sale giusto su una pietanza sovente insipida o ripetitiva.
Nick fu il genuino per eccellenza. Si muoveva negli ambienti sportivi come un vecchio capitano cammina sul ponte della sua nave, di cui conosce ogni pezzo di legno, ogni chiodo e anche ogni topo che se ne sta acquattato nella stiva.
M’avrà detto mille volte: «Se racconto tutto, vanno tutti in galera». Ma aggiungeva un sorriso con appena un filo di civetteria. E certo di cose, cosacce, presidenti, intrallazzi, vendite, manfrine, imbrogli sapeva molto. Perchè a Nick tutti raccontavano tutto, ritenendolo un depositario unico, una sorta di confessore permanente del mondo del calcio.
Amava personaggi ben costruiti, come Nereo Rocco, ad esempio: e infatti per anni un settimanale visse quasi esclusivamente su una vignetta che inquadrava Rocco e Carosio aggrappati a fischi, bottiglie, bicchieri, ogni sorta di liquidi alcolici, e si scambiavano battute un po’ tenere e un po’ feroci. L’Italia della pedata si godeva quella vignetta ebdomadaria come oggi si gode un «controcorrente» o una satira su Berlinguer o Craxi.
Inimitabili davvero erano poi le sue furie. Contro il tempo malvagio che rovinava una partita in notturna. Contro un arbitro stravagante. Contro un guardalinee etiope che ci fece annullare un gol nel ’70 in Messico (e lì perse il posto su ordine dei «capataz» politici romani). Contro i giocatori neghittosi o gli spettatori tiepidi. Erano furie scatenate con freddezza, veramente all’inglese: improvvise ma come se le avesse preparate a tavolino. Veementi ma con un risvolto immediato di umorismo autocritico che gli consentiva di rientrare nella «normalità» della trasmissione dopo aver fatto balzare sulla sedia l’ascoltatore. Finita l’impennata, riecco Carosio «procedere per linee interne» come un centrocampista qualunque. Un colpo di genio.
Ma torniamo alla «voce». Pastosa, sobria, che non si è mai inciampata, non ha mai dovuto dire un «mi correggo». Ho sentito persone diverse per età e cultura imitare Carosio, in treno, in trattoria, al caffè, come accade soltanto per i divi e i dittattori. Ho sentito ragazzini chini sul calcio-balilla commentare secondo i metri vocali di Carosio le loro partite tra pupazzi di legno. Il «Signor radiocronaca» ottenne questo, perchè sapeva anche trasformare una gara melensa in un fatto glorioso. La televisione, che è strumento gelido e diabolico, impedisce alla cronaca di crescere a leggenda. In determinati fatti agonistici, l’occhio non dovrebbe avere la sua parte, l’orecchio basta e avanza. E Carosio radiocronista lo sapeva così bene che gli bastava un solo aggettivo in più per dare alone al fatto e carisma a se stesso. Quell’aggettivo in più, tra l’altro, doveva essere capito e gustato da tutti, ministri e muratori, infanti e nonne.
Piangendo Carosio piangiamo anche questa misura, di professionista e di uomo, questo garbo pudico e il pronto vezzo di un grido che cadeva come un punto
esclamativo al termine di una frase netta e tornita.Addio Nick, è proprio a te che dobbiamo dedicare un minuto di silenzio, a te e alla tua «voce». In questo lungo minuto, ciascuno di noi la risente come un eco fraterno».
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