L'uomo che saltava guardando il cielo ora ci guarda da lassù. Con la morte di Dick Fosbury un pezzo di storia se ne è andata, anche se la sua firma continuerà ad essere sempre presente negli altisti che interpretano oggi quello che lui ha fotografato a Città del Messico.
Per Sara Simeoni, medaglia d'oro nell'alto all'Olimpiade di Mosca del 1980, «Dick Fosbury è stato fondamentale. È stato un personaggio che ha dato una svolta non solo al salto in alto ma al movimento dell'atletica e dello sport in generale». Simeoni fu tra le atlete che beneficiarono di quel salto a gambero e, anzi, fu in grado di applicarlo alla perfezione. «Quando ho avuto modo di conoscere lui e la sua famiglia in un convegno a Gubbio - confida la campionessa olimpica di Mosca 1980 -, ero emozionata. Perché lui è stato importantissimo per me. Ho adottato il suo stile e se sono riuscita a fare i risultati è merito anche suo. Con il salto dorsale, ha dato l'opportunità a tutti di poter saltare misure che con il ventrale non avremmo potuto ottenere». Ma perché il Fosbury Flop fu un salto rivoluzionario? «Il ventrale era molto più complicato - conferma Sara -, invece il Fosbury andava interpretato. Lui, Dick, ha lasciato libertà, fantasia, nell'interpretare questo salto, cosa che con il ventrale non era possibile. Perché, a differenza del Fosbury più vario e piacevole, dovevi per forza eseguirlo biomeccanicamente in un certo modo e diventava pure più pesante psicologicamente da allenare. Anche per questo, ha fatto gioire tante persone».
All'inizio c'era scetticismo su quel gesto. «Con questo stile hanno dovuto cambiare i regolamenti perché fino a quel momento non si poteva superare l'asticella con il capo per primo. Magari si prestava alla derisione, ecco, rispetto all'altro stile che era considerato molto più serio». La carriera di Fosbury è durata poco, l'americano si ritirò poco dopo l'Olimpiade e preferì fare l'ingegnere. «Non importa, lui ha segnato una strada, ha fatto un qualcosa di geniale. Non è una cosa di poco, quando si deve saltare un Fosbury si pensa inevitabilmente a Dick».
Negli ultimi tempi, l'americano di Portland stava combattendo un male. «La sua lotta con il tumore? Pensi sempre che le cose possano rivoluzionare anche in questo senso, che ci possa essere una via di uscita per certi personaggi ed invece purtroppo non è andata così. Ma lui - chiosa la Simeoni - resterà per sempre e non c'è neanche bisogno del monumento per ricordarlo».
Chi, invece, lo ricorda benissimo è Giacomo Crosa, testimone oculare in quella finale di Città del Messico 1968 in cui si classificò sesto saltando ancora con lo stile ventrale. «Dick era un artista, è la parola che più si avvicina al gesto che lo ha così reso popolare nel mondo. Viveva a Ketchum, in Idaho, nella Sun Valley, laddove Hemingway ha finito la sua storia. È stato come un grande pittore, assolutamente sì. Il suo salto era questo. È questo. Perché ha cambiato lo sport ed ha anche vinto. Ha messo l'autografo: questa è la tecnica, ed è la mia. Facendo record olimpico e vincendo i Giochi olimpici».
La notizia della sua morte lo ha addolorato e descrive la sua rivoluzione come un'arte. «Eravamo coetanei e ogni tanto ci si sentiva - sottolinea il giornalista ed ex primatista italiano del salto in alto -. Era una persona di classe, in ogni suo atteggiamento. Lo ricordo ovviamente per quella gara, per quella finale, per quel salto che ho visto solo dopo che ho finito di saltare. La sua concentrazione è la cosa che io ancora porto davanti agli occhi, così come le sue mani che si muovevano aprendosi e chiudendosi.
E poi l'eleganza del suo salto, che adesso non si ritrova nei puristi moderni, ma la plasticità e la purezza di posizione del suo gesto sopra l'asticella era qualcosa, anzi è qualcosa che nei saltatori di adesso non c'è».
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