La "febbre da cavallo" è sparita. Scommesse a picco in 9 anni

La concorrenza di altri giochi, l'enorme prelievo fiscale ma non si è saputa adeguare l'offerta del prodotto

La "febbre da cavallo" è sparita. Scommesse a picco in 9 anni

C'era una volta la «febbre da cavallo», quella immortalata nel film cult del 1976 con Proietti e Montesano. A quei tempi - Totocalcio a parte - le uniche scommesse legali in Italia erano quelle sull'ippica e le sale corse, così come gli ippodromi disseminati sulla la penisola, prosperavano con la loro pittoresca fauna di avventori. Per anni il settore ha vissuto alla grande permettendo all'allevamento di purosangue di diventare un'eccellenza assoluta: Varenne, il cavallo più famoso del mondo (ritiratosi nel 2002) è italiano, e ancora domenica scorsa nella 96ª edizione del Grand Prix d'Amérique di Parigi erano al via ben tre trottatori di casa nostra.

Il problema è che nel frattempo l'ippica italiana, intesa come comparto, è piombata in una crisi che si aggrava di giorno in giorno e che solo in parte è figlia di quella più generale che da qualche anno si è abbattuta su tutta l'economia. Perché sicuramente la spending review a cui è stata costretta la pubblica amministrazione a partire dal 2011 ha aggravato la situazione, di certo l'Iva al 22% sull'equitazione agonistica mette in grossa difficoltà gli allevatori, ma se consideriamo che tutto poggiava sulla raccolta delle scommesse (che al netto dell'Imposta Unica viene poi ridistribuita a tutta la filiera) i guai vengono da molto più lontano e cioè da quando in Italia sono state legalizzate le scommesse sportive.

Il loro debutto avvenne tra il 1998 (in via sperimentale) e il 2000 (in via definitiva) e la rottura del monopolio segnò l'inizio del declino di quelle ippiche. Che tuttavia, almeno nei primi anni, non furono cannibalizzate: dai circa 3,5 miliardi che raccoglievano allora agli attuali 600 milioni il percorso è stato lungo e non uniforme nel tempo; basti pensare che ancora nel 2008 le giocate sui cavalli si difendevano alla grande con 2,8 miliardi di fatturato. Ma allora che è successo nell'ultimo decennio, che cosa è stato a far precipitare la situazione al punto che la Corsa Tris - quella che per intenderci veniva giocata da «Mandrake» e dal «Pomata» e che nell'ultimo venerdì di gennaio 2007 raccolse più di 1,8 milioni di montepremi - venerdì scorso ha incassato appena 130mila euro?

C'entra senz'altro la concorrenza di tanti altri nuovi giochi e lotterie che sono stati introdotti sul mercato, ma c'entra soprattutto il fatto che le scommesse ippiche non hanno saputo muoversi al passo coi tempi, ossia adeguare l'offerta del prodotto a quella di una concorrenza che invece ha saputo trovare la formula giusta anche procedendo per successivi aggiustamenti. Di fatto le scommesse sui cavalli oggi sono pressoché identiche a 25 anni fa. Si potrebbe ribattere che anche il gioco del Lotto lo è e non conosce crisi, ma si tratta di un segmento diverso con un pubblico fidelizzato e che quindi non subisce la competizione. E poi c'è il problema della tassazione, il cuore della faccenda.

In Italia il gioco sull'ippica è quasi tutto a totalizzatore. Per fare un confronto con la patria delle scommesse, se in Inghilterra su un volume di 15 miliardi solo 400 milioni sono vengono giocati a totalizzatore, da noi è esattamente il contrario: sui 600 milioni attualmente fatturati a quota fissa ne vengono scommessi appena 75. E questo perché su questo tipo di giocata il prelievo fiscale è abnorme, e la rende non concorrenziale. Facendo un confronto tra prodotti diversi vediamo che - considerato che l'82% della raccolta viene ridistribuita ai giocatori in forma di vincite e il rimanente 18% resta al «banco» - il prelievo sulle scommesse sportive è del 3,6%, mentre su quelle ippiche lo Stato arriva a trattenere il 12,5%.

Si capiscono allora un paio di cose: innanzitutto che in questo modo è impossibile vendere le scommesse ippiche a quota fissa in modo industriale, tant'è che gli operatori le offrono soltanto per onor di firma, ossia per non perdere scommettitori e attrarli comunque verso il totalizzatore; secondo, che in tema di quota fissa questi ultimi saranno inevitabilmente attratti da giochi con una redditività maggiore.

Tutto questo si riverbera sull'intero comparto dell'ippica, che per questi motivi attualmente è in bancarotta: produce circa 70 milioni all'anno e pur avendo stretto molto la cinghia continua a perderne circa 200. Per dirla con un altro film, non si uccidono così anche i cavalli?

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