"Francesi aiutati dal Tour. Il Giro pensa solo a se stesso"

Moreno Argentin spiega: "La Grande Boucle sostiene tutto il movimento transalpino. Qui invece..."

"Francesi aiutati dal Tour. Il Giro pensa solo a se stesso"

È stato per anni il simbolo del riscatto degli italiani in Belgio, di quella ampia comunità che da sempre abita Liegi e spesso è derisa, e anche emarginata. Per questo una vittoria di Moreno Argentin aveva, per i nostri tanti connazionali, il sapore del riscatto.

Le Carré è il cuore torbido e inquieto di Liegi, dove festeggiare le vittorie di quel ragazzo che esattamente 35 anni fa si palesava al mondo conquistando per la prima volta la Doyenne, la decana delle classiche. Forse la più Nobile e difficile classica Monumento, che il veneto di San Donà di Piave seppe conquistare per ben quattro volte in carriera.

Ieri si sarebbe dovuta correre l'edizione numero 103, ma in questo periodo di serrata totale, dove il mondo del ciclismo pedala di buona lena sui simulatori di ultima generazione, noi abbiamo raggiunto telefonicamente il Principe di Vallonia, titolo conquistato a suon di vittorie: quattro Liegi (meglio di lui solo Merckx, a quota 5, ndr), oltre a tre Freccia Vallone.

Argentin, come va in questo periodo di clausura forzata?

«Bene, occupo il tempo facendo lavoretti a casa. In questo periodo ho riverniciato i miei cancelli».

Sa che sono passati 35 anni dalla sua prima vittoria alla Liegi?

«Certo che lo so, quella la considero ancora oggi la più importante delle mie vittorie assieme al mondiale di Colorado Springs conquistato l'anno successivo, nel 1986. E dire che alla mia prima partecipazione arrivai ultimo (primo Silvano Contini, ndr). Però, nonostante quel risultato poco lusinghiero, capii che quella sarebbe stata la mia corsa».

Cosa bisogna avere per primeggiare al Nord?

«Tenuta e resistenza. La Liegi, assieme al Lombardia, è una delle corse più dure al mondo. Se ami prendere il vento in faccia e hai la forza di buttarti nella mischia, quelle corse sono l'ideale».

Claude Criquielion - due volte secondo e una terzo - è stato il rivale più tenace.

«Ma anche il più leale. Sapeva di essere il meno veloce, ma non ha mai fatto il furbo: generoso come pochi».

La vittoria più spettacolare e rocambolesca è però quella del 1987, in maglia iridata.

«Esattamente. Sulla salita dell'Università mi presero i crampi, ma trovai sulla mia strada Yvonne Madiot e David Millar (oggi è diventato donna, ndr). Davanti lanciati verso la vittoria c'era il solito Criquellion e Stephen Roche. Li vedevo da lontano, e mi sembravano chiaramente irraggiungibili. Ad un certo punto, però, inaspettatamente cominciano litigare e a rallentare: tira tu che tiro io, noi da dietro arriviamo a doppia velocità. Ai 300 metri d'istinto scattai. Vinsi di forza, e pensare che mi sentivo più morto che vivo».

Come mai oggi si fa fatica a vincere queste grandissime classiche monumento?

«Non ci sono più squadre italiane, e i corridori di casa nostra sono quasi tutti portatori di acqua. Bravissimi corridori, condannati però al ruolo di comprimari. Eravamo la centralità di questo sport, purtroppo non lo siamo più».

Si è mai domandato il perché?

«Perché il ciclismo costa troppo per quello che da come ritorno. E a casa nostra paghiamo la crisi economica e ancor di più tutti gli scandali doping che ci sono stati. Il caso Pantani per noi è stato fatale. Poi a differenza della Francia, l'Aso - l'ente che organizza il Tour e tutte le più grandi corse francesi -, aiuta concretamente a tenere in piedi tutto il movimento transalpino, anche quello di base, mentre in Italia Rcs Sport pensa solo alle proprie tasche».

Per i nostri connazionali, lei è il simbolo dell'Italia che ce la fa.

«Se ci penso mi viene ancora la pelle d'oca. Ricordo che, con le lacrime agli occhi, mi chiedevano espressamente di vincere. Per loro una mia vittoria era davvero un piccolo raggio di luce in una vita parecchio buia».

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