Milano - Le strade che portano al consenso sono spesso tortuose e in salita. Specie nel calcio italiano dove basta un gol per diventare super Mario Balotelli e un rigore sbavato per ricevere il timbro a secco del sopravvalutato. Nel caso di Paolo Maldini dirigente - perché da calciatore, intendiamoci bene, fuoriclasse è stato classificato dal primo all'ultimo giorno a dispetto di qualcuno che lo classificò raccomandato perché figlio di Cesare - sono diventate, in poche ore, una discesa ardita senza risalita. Spiegazione elementare: qualche ora dopo la mossa a sorpresa Maignan con la quale ha scaricato Donnarumma e il suo avido agente Mino Raiola, gli è piovuto addosso uno tsunami di bene, bravo, bis da parte del popolo dei tifosi, milanisti e non, insofferenti dinanzi all'ingordigia di Raiola e dei calciatori in epoca Covid. Eppure il nostro non è mai stato un amico delle curve. Al contrario venne scorticato vivo con un'onda di fischi il giorno del congedo da San Siro, scena molto triste e inquietante, figlia della sua naturale allergia a far comunella con gli ultrà e a ritagliarsi il ruolo di capitano e storia vivente del club.
Il suo arrivo a casa Milan, prima al fianco di Leonardo da apprendista, poi in società con Boban, infine in prima linea quando Gazidis ha cestinato la tentazione tedesca, fu salutato da grandi aspettative. E se qualche lieve censura gli è arrivata per lo stile adottato dai tifosi barricaderi (mai una polemica con gli arbitri, mai un battibecco con gli addetti ai lavori), sul caso Donnarumma è riuscito a mettere d'accordo tutti e a riscuotere consensi, moltiplicatisi dopo il tono elegante del congedo concesso a Gigio il quale ha replicato dal ritiro azzurro in Sardegna con una foto al fianco di Bernardeschi, biondissimo juventino, e un like alla notizia di Allegri allenatore della Juve, quasi a reclamare un aiuto per il trasferimento a Torino.
Di sicuro, al di là del consenso personale, Maldini e il Milan hanno lanciato un segnale molto forte al mondo del calcio italiano alle prese con la più grave crisi finanziaria. Tra le righe si può leggere la rivolta alla dittatura degli agenti e la necessità di preparare un altro format calcistico, sostenibile, se si vuole avere un futuro. È la strada tracciata da Elliott che chiuderà il bilancio al 30 giugno con la metà del passivo precedente. Certo, come ripete anche Paolo Scaroni il presidente, «senza un nuovo stadio il club non può tornare ai vertici» ma qui ci sono altri ostacoli da superare, la burocrazia e l'inadempienza dell'Inter cinese. Nel frattempo si può guadagnare credibilità attraverso il secondo criterio adottato dalla gestione milanista: la stabilità. Che vuol dire stabilità di guida tecnica (Pioli), di piani per il futuro, puntando sui giovani di talento dallo stipendio moderato.
E pazienza se Donnarumma vola via a caccia di super-ingaggi. Un tempo (ricordate le manifestazioni per non far partire Kakà?) sarebbe accaduta la rivoluzione sotto gli uffici del Portello. Oggi si sentono solo applausi.
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