Mettiamola così: l'ha fatto per se stesso ma a suo modo anche per noi. Benché ci fosse un'altra strada più comoda, ha deciso di imboccare la via stretta, sconnessa e piena di buche: quella del no alle Olimpiadi. Jannik l'ha fatto consapevole di inciampare e delle critiche che sarebbero arrivate, sicuro che in molti non gli avrebbero creduto, certo che l'immagine ne avrebbe patito, però sempre con la testarda convinzione senza compromessi figlia del lavoro e delle terre sue: che fosse giusto prendere quella strada per proteggersi e proteggere. Lo comprendiamo adesso che sappiamo come il numero uno del mondo ha trascorso gli ultimi quattro mesi, ora che dietro ai dolori alle anche, mancamenti e tonsilliti varie intravvediamo lo sforzo di un giovane uomo costretto a portare avanti impegni e obiettivi, lottando sul campo e difendendosi fuori, ma sempre con la paura nel cuore che tutto gli crollasse addosso all'indomani della sentenza. «Una vicenda che l'ha logorato fisicamente e mentalmente» ha rivelato ieri il suo tecnico, Cahill, lasciando intendere che dietro al no ai Giochi ci fosse anche se non soprattutto questo. E allora s'insinua, come un gancio in mezzo al cielo, il sospetto leggero e consolatorio che Jannik abbia rinunciato alle Olimpiadi non solo per proteggere se stesso ma in qualche modo tutti noi, il suo Paese, lo sport italiano, il Coni, persino il presidente Mattarella che l'avrebbe sicuramente applaudito e invitato al Quirinale.
Per farsi prendere per mano dal pensiero leggero, è sufficiente soffermarsi per un solo istante a immaginare che cosa sarebbe stata e diventata una qualsiasi sua medaglia olimpica dopo l'annuncio della positività e dell'assoluzione; o, peggio, se non fosse stato assolto. Da brividi. Per lui, certo. Però come mai li sentiamo anche noi correre lungo la schiena?
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