nostro inviato a Londra
Non è ancora il tempo dell'oro per la boxe italiana. Perso il primo match point, oggi vediamo il secondo Un legnaiolo ucraino ha spento l'urlo di Tatanka. Anche stavolta Clemente Russo si porta a casa la medaglia d'argento. Oleksandr Usyk, un tipo roccioso, inquietante, capelli rasi e ciuffetto alla Gengis Khan, tanti tatuaggi e pugni pesanti lo ha massaggiato in due round su tre e Russo ha intuito la brutta aria. Marcianise festeggia senza l'oro. Se ne farà una ragione anche Saviano. Match perduto sul piano pugilistico e sulla sostanza dei colpi. Secondo round chiuso alla pari (8-8), dopo il primo vinto 3-1. Ma c'era già il segnale della tempesta. Nel terzo round Russo ha subito anche qualche colpo pesante, l'altro ha fatto cinema a modo suo. Tante botte e poco spazio per il fioretto. Serviva restituire pugni duri. Inutile provarci con pugni svolazzanti ad acchiappare il bersaglio. Russo ha capito che non era serata. Non c'era bisogno del verdetto: 14-11 il conteggio dei giudici. E addio sogni d'oro. Resta l'argento, non è da tutti. A Pechino era scontento. «Stavolta sono contento. Una medaglia conquistata. Quattro anni fa piangevo facendomi sensi di colpa. Non basta la bravura, bisogna fare sacrifici. E io alla terza Olimpiade ho dimostrato continuità. Ma a Rio ci riproverò, avrò 34 anni ma dopo due argenti ci vuole l'oro». E questa medaglia vale la dedica a Rosy, la sua bambina. Gigante buono.
La battaglia tra giganti è sempre stata una delle attrazioni della boxe. Gli inglesi, che si ritengono maestri in materia, hanno spesso inseguito il gigante forte, coraggioso, potente, indifferentemente bianco o nero: da Henry Cooper a Frank Bruno. Li hanno fatti baronetti. Poi si sono aggrappati a Lennox Lewis, giamaicano che vinse le Olimpiadi per il Canada e divenne campione del mondo dei professionisti sotto l'Union Jack. Nel 1908, prima volta a Londra, il poliziotto Alberto Oldman mise ko tutti gli inglesi che gli capitarono a tiro. L'ultima fu con Audley Harrison, bambolone formato corazziere che conquistò l'oro olimpico a Seul 88. Ma era un gigante dai piedi d'argilla. Stasera ci sarà un ragazzone londinese sul quadrato, i giornali hanno già strepitato: Joshua, dopo Harrison tocca a te! Joshua è Anthony Joshua, una buccia di banana per Roberto Cammarelle. Il nostro campione olimpico ci riprova: lo aspettano un posto nella hall of fame dei Giochi, ma soprattutto la giuria.
C'è un po' di boxe d'altri tempi in questo match: scontro fra giganti che diventerà scontro fra titani se la giuria ci metterà becco. Joshua è spuntato nella boxe dei dilettanti come un cenerentolo: l'anno scorso arrivò ai mondiali di Baku numero 46 della categoria, ne uscì campione del mondo dopo aver battuto, cammin facendo, proprio Cammarelle. Certo, il nostro era un po' svagato. Oggi è molto più concreto e concentrato. Il titolo dei supermassimi sarà l'ultimo assegnato, l'Arena dell'Ex-cel un ribollire di nazionalismo e urla, storie da saloon, birra a go-go, stile vecchia America.
Cammarelle sarà solo con i suoi colpi, combatterà nella giungla del tifo avverso, come capitò anche a Pechino contro il padrone di casa: si chiamava Zhang Zhizei, finì ko. Il tifo non ti mena, però condiziona chi giudica. Cammarelle è un gigante dalla schiena d'argilla, ma conosce la dolce scienza dei pugni proprio come piace agli inglesi. Picchia se può, ti fa soffrire con colpi interni e precisi. Si giocherà la sua boxe scientifica contro quella d'attacco.
«E per me sarà meglio, sono anche cresciuto fisicamente». Ammette: «È una grande soddisfazione, dopo aver rischiato di non essere neppure ai Giochi. Ma io sono il campione di Pechino». Pensiero nascosto, ma non tanto: il più forte sono io. Vero, ma serve un altro ko.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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