La voce la riconosci subito. No, Salvatore Torrisi non fa il cantante, ma è il cantore di una musica speciale: quella dei motori. Frasi tradotte a tutto gas seguendo il ritmo delle parole - non sempre perfettamente carburate - degli eroi di F1 e MotoGp. Dalle sue «simultanee» passano tutti i piloti stranieri, ma anche gli altri comprimari di un circo che odora di pneumatici. E dove vige la regola del «chi si ferma (ai box) è perduto». Torrisi (età indefinita, lui si limita a dire che ha «più di 45 anni») di professione fa l'interprete a Sky Sport, e quando c'è una corsa è lui che ci restituisce, in un italiano sprintosamente chiaro, il pensiero di chi ha fatto della velocità la propria ragione di vita. E in costante accelerazione è pure la carriera di Torrisi (nome d'arte «Il Padrino»), considerato che le performance di Salvatore sono finite addirittura in tesi di laureandi in facoltà linguistiche.
In pole position anche sulle piste degli atenei... Complimenti.
«Il fatto che degli universitari e pure qualche vip si siano rivolti a me per dei consigli è una bella soddisfazione».
Merito dei suoi amori professionali: le lingue straniere e i motori.
«I motori sono venuti dopo. Ho cominciato nel 2006 con il wrestling. Facevo il telecronista. Questo sport era una novità per l'Italia. Seguitissimo in tv, divenne un fenomeno tra i più giovani. Un boom che durò diversi anni».
Dovevate lavorare di fantasia. I pugni, calci e schiaffi erano fasulli...
«Il wrestling era uno show dove tra noi e i telespettatori c'era una sorta di patto segreto: tutti sapevano che si trattava di una sceneggiata, ma si faceva finta che si massacrassero davvero. Il bello dello spettacolo stava proprio lì...».
Poi pian piano il wrestling finì al tappeto sul ring dell'audience e cominciò l'avventura tra i bolidi.
«Era il 2013 e in quel settore Sky Sport cercava un interprete. Sono laureato in Lingue e letterature straniere alla Statale di Milano e ho una specializzazione in traduzioni: parlo inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese. I motori mi sono sempre piaciuti, da piccolo con papà non ci perdevamo un Gran Premio. Sky mi dette fiducia. Feci un provino. Andò bene. E da allora l'avventura continua...».
Gaffe in carriera? Incidenti di percorso?
«Una volta non mi accorsi di avere il microfono acceso e mi arrabbiai perché non avevo il ritorno in cuffia. Per fortuna non spuntarono parolacce. Ma l'indomani mi ritrovai sui social descritto come l'indemoniato bisognoso di un esorcismo...».
È sempre riuscito a tradurre tutto con chiarezza?
«Quasi sempre. Eccetto con due piloti della MotoGp, uno thailandese e l'altro turco, che risposero alle domande dei giornalisti usando le loro lingue madri. Mi arresi in diretta, ammettendo che thailandese e turco erano per me idiomi sconosciuti».
Piloti del passato che le hanno creato problemi?
«In F1, Mark Webber. Confesso che ho faticato non poco a decodificare il suo stretto accento australiano. Quando ormai ce l'avevo fatta, lui si ritirò. In MotoGp ricordo il britannico Cal Crutchlow e l'australiano Peter Miller, insidiosi perché spesso improvvisavano battute spiazzanti difficili da rendere in italiano».
Altri personaggi a rischio traduzione?
«Il team principal Claire Williams che parla a una velocità stratosferica e il direttore tecnico della Red Bull, Adrian Newey che muove pochissimo la bocca».
È mai stato tentato di «migliorare» una risposta troppo banale?
«Il mio ruolo è solo rendere il più possibile preciso e comprensibile ciò che dicono gli intervistati».
Se le risposte sono tecniche la difficoltà aumenta?
«Bisogna essere aggiornati su tutto, anche in ambiti specifici come quello ingegneristico. Ma per me non è un sacrificio. Sono materie che coincidono con le mie passioni».
Lavorare divertendosi. È il massimo.
«Quando infatti la mia bimba mi dice Papà ma il tuo non è un vero mestiere..., sono felice di darle ragione».
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