Venticinque anni fa l'addio ad Ago Di Bartolomei

Il ricordo dell'ex capitano della Roma è vivo nel cuore dei tifosi e degli sportivi italiani. Le testimonianze e i tributi invadono il web

Venticinque anni fa l'addio ad Ago Di Bartolomei

Sono passati venticinque anni da quando, il 30 maggio del 1994, Agostino Di Bartolomei si tolse la vita a Castellabate, in provincia di Salerno. Giusto dieci anni dopo la sconfitta ai rigori col Liverpool, in finale di Coppa dei Campioni. Ma il suo ricordo, oggi, vive nella commozione dei tifosi delle squadre in cui ha militato e degli sportivi italiani e non.

Il nome di Di Bartolomei è legato a filo doppio, inestricabile, a quello della Roma. Coi giallorossi, “Ago” è nato calcisticamente e della Roma è diventato capitano negli anni d’oro, i più esaltanti, quelli della Roma che si scrolla di dosso gli "anni cupi" e che seppe diventare Magica, anzi Maggica; gli anni, insomma, più rimpianti dai nostalgici innamorati del calcio d’antan. Forse perché anche Di Bartolomei non era un giocatore moderno. Non nel campo, dove – piazzato da Niels Liedholm davanti alla difesa – faceva il regista davanti alla difesa, tessendo trame e reggendo la squadra sui suoi lanci millimetrati. Capace tanto di difendere quanto di impostare l'attacco.

Era fuori dal campo che Agostino Di Bartolomei mostrava di apparteneva a un altro tempo. Simile, in questo, a un altro gigante del pallone italiano che troppo presto ha lasciato questa vita, Gaetano Scirea.

Schivo, umile e modesto. La cultura del lavoro duro che alla fine paga, quella della solidità di chi non s’allarga mai a parole se c’è il rischio di non poter mantenere quanto si promette. Che differenza con i calciatori “divi” che pure in quegli anni, tra la fine dei ’70 e gli anni ’80, iniziavano a farsi notare dentro e fuori il rettangolo di gioco. Parlava poco dunque, faceva tanto. Con la Roma, per esempio: 311 presenze e ben 69 gol, molti di questi su punizione e rigore, di cui è stato uno specialista.

E non si lamentava mai. Non lo fece nemmeno quando, nell’84, un altro svedese, Sven Goran Eriksson, lo reputò troppo lento e lo mise in uscita dalla squadra. Il suo vecchio maestro, Niels Liedholm, se lo portò al Milan. E alla prima contro i giallorossi, segnò e spalancò le braccia sotto la curva rossonera a San Siro. Poi l’esperienza con la maglia bianconera del Cesena. Arrivò in Romagna nell’87, a 32 anni, con l’etichetta di calciatore lento e superato. Inadatto, forse, alla rivoluzione che Sacchi preparava a Milanello. Non fece una piega. Si mise la fascia di capitano e portò i bianconeri romagnoli alla salvezza. Fu l’ultima stagione in Serie A.

Ma ebbe ancora tempo per l’ultima delle sue imprese sportive. Firmò con l’ambiziosa Salernitana in serie C. Erano quasi vent’anni che i granata puntavano alla promozione, senza riuscirci. Non furono tutte rose e fiori e, per un certo periodo, durante il primo dei due campionati giocati in Campania, qualcuno finì addirittura a relegarlo in panchina. Poi, nell’89/90 gli affidarono le chiavi della squadra e la Salernitana colse quella promozione rincorsa per così tanti anni. Vinse e si ritirò così, dopo un giro di campo al vecchio Vestuti che, già dall’anno dopo, avrebbe lasciato il posto al nuovo impianto sportivo.

Oggi, a distanza di un quarto di secolo, il ricordo di Di Bartolomei è vivo.

Le società in cui ha giocato gli dedicano cartoline e videotributi, acclamati - letteralmente - dagli utenti del web, a cui, forse, sarà scappata una lacrima pensando al destino triste capitato a uno degli ultimi hombres verticales del calcio italiano.

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