Il ragazzo delle Asturie ha segnato un gol di tacco e poi ha baciato, una, due, tre, sette volte lo scudo sulla maglia nera indossata ieri della Spagna. David Villa parte per New York, andrà a concludere, negli Stati Uniti prima e a Melbourne dopo, la sua storia gloriosa, migliore goleador di sempre (59 reti in 97 partite) della nazionale già campione del mondo e ancora campione d'Europa.
L'addio di Villa è l'addio della Spagna al Brasile e al titolo conquistato in Sudafrica. È l'addio di una generazione che ha regalato sei anni di onori e di football totale e totalitario, una macchina perfetta costruita da Luis Aragones, perfezionata da Vicente Del Bosque, esaltata dal momento grandioso del Barcellona, del Real Madrid, per ultimo, dell'Atletico di Madrid.
La scuola spagnola non è finita ma sfinita, il torneo brasiliano è stato l'atto conclusivo di un gruppo non più affamato, i toreri stanchi sono stati travolti dall'Olanda e umiliati dal Cile, la sfilata di ieri con l'Australia è stato l'atto triste, solitario y final, chiedendo scusa a Osvaldo Soriano. Radio Madrid ripete che Del Bosque continuerà il suo lavoro ma altre voci riferiscono che l'ex centrocampista del Real Madrid (Vujadin Boskov, che lo allenò, lo definiva «tecnica y tecnica y tecnica») assumerà un ruolo federale al fianco di Villar, lasciando il posto a un giovane tecnico.
I romantici e sognatori vorrebbero Pep Guardiola ma il problema della Spagna non è certamente quello del pilota. Semmai è il motore ad aver bisogno di una revisione e di una modifica.
Il ricorso al brasiliano Diego Costa, in condizioni fisiche imperfette, ha mortificato Torres e Mata, autori del secondo e del terzo gol ieri, e lo stesso Villa, le altre scelte di Del Bosque sono state di riconoscenza nei confronti del gruppo euromondiale più che di oggettiva valutazione tecnica (un analogo errore di affetto venne commesso da Enzo Bearzot dopo Spagna '82); lo spogliatoio si è disunito, le critiche di Xabi Alonso (anch'egli al ritiro), le aspre discussioni con Fabregas, i silenzi di Xavi, un altro che abbandona, e di Piquè, l'assenza di un capitano e leader vero come Pujol, sono stati i segnali di fumo nero che hanno portato non soltanto all'eliminazione ma addirittura ad una crisi di identità tecnica e tattica.
Il computer spagnolo è stato attaccato da un virus improvviso e imprevisto, il pallone è sembrato avvelenato e velenoso tra i piedi solitamente raffinati di Iniesta e Fabregas, anche il muro difensivo si è sgretolato e le gaffes di Iker Casillas hanno annientato qualunque speranza. Proprio Casillas ha lasciato il posto a Pepe Reina nella partita conclusiva contro gli australiani, come un timbro «scaduto» sulla carriera illustre del portiere del Real al quale Del Bosque non ha voluto concedere il passo d'addio. Che invece è toccato a David Villa, richiamato in panchina dopo cinquantasei minuti, cinquantanove gol, tra ovaciones y orejas come si deve a un grande torero.
Sei anni di trionfi, due titoli europei, una coppa del mondo. La Spagna lascia il Brasile con l'ultima e unica vittoria, chiedendo scusa, senza doversi vergognare. Accompagnata dalla malinconia del tempo, di gloria e di trionfi, ormai passato.
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