Continua il nostro viaggio tra i maestri del giornalismo che hanno scritto le pagine più belle dello sport. Visti da vicino attraverso i ricordi personali di chi li ha avuti come modelli, punti di riferimento, oppure compagni di trasferte o di redazione.
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Nostalgia canaglia. Beppe Viola torna a trovarci mentre piangiamo ancora oggi e tu te la Ridi come in quel capolavoro che hai scritto insieme a Jannacci e Melis. I fratelli dell'Incomputer, la commedia dell'arte regalata al giornalismo sportivo, soprattutto a quello televisivo. Ogni volta che sentiamo berciare gli stonati delle dirette appoggiamo l'orecchio sulla copertina di Vite vere, compresa la mia. Il suo testamento ideologico, dell'artista che non si è mai preso sul serio. La speranza è di ritrovarlo sul tram con Rivera, di riascoltarlo mentre ci riprende il microfono lasciato per un attimo, aveva sete, quando lo sceicco del Kuwait invade il campo del Josè Zorrilla a Valladolid, mondiale di calcio del 1982. La nostra estate insieme. Così breve, così bella, così ricca di emozioni da vivere tirando a campare, inebriati da una conoscenza per sentito dire, un'amicizia senza un domani perché dopo tre mesi se ne era andato a pochi giorni dal suo quarantatreesimo compleanno. Noi garzoni, lui artista. Cinema, le notti e la creatività al Derby fra Cochi e Renato, il suo amico Enzo. Sapeva scrivere, sapeva incantare e faceva cantare gli altri perché quel Vita, vita scritto con Lina Wertmueller per la chitarra di Jannacci era poesia, incanto di uno che non amava incantare e al pivello curioso che voleva sapere come aveva fatto ad entrare in Rai dopo essere partito a metà degli anni Cinquanta da Sportinformazioni, la stessa agenzia del nostro battesimo giornalistico, rispondeva sempre la stessa cosa: «Non ne vale la pena se non conosci qualcuno che conta».
Tu Beppe lo conoscevi nel 1961 uno che contava quando sei entrato in Rai? No, ti rispondeva, ma ero bravo a fare tutto e capace a fare niente, non davo fastidio. Non era vero che non sapeva fare niente, ma gli piaceva presentarsi così come poi lo ha dipinto Gianni Brera nel giorno dell'addio: «Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. Batteva la carta in osteria e delirava per un cavallo modesto. Tirava mezzo litro e improvvisava battute che esprimevano il sale della vita. Aveva un umorismo naturale e beffardo...».
Fu per merito di un mezzo litro spagnolo, mentre cercavamo di rubare l'anima a due colleghi francesi, vincendo persino alla petanque, che incrociammo Pepinoeu, come lo chiamava Brera, puntando verso San Sebastiano con guida incerta, anche se vigili abbastanza per schivare un pazzo che andava contro mano sulla strada per quell'incanto dei baschi. Avevamo fretta. La Francia preparava la partita poi persa all'esordio con gli inglesi a Bilbao, dovevamo assolutamente incontrare Platini che era ormai juventino. Ci fece strada il Virbére della France Presse e Beppe si fece prestare dal fotografo Perier la sacca per mimetizzarsi. Su quella borsa pesantissima da fotografo voleva scrivere una storia. Non fece in tempo. Però con Platini riuscimmo a parlare. Quasi amici perché il re appena scoprì giornalisti italiani disse ai francesi: «Scusate ma il mio futuro è con loro».
Eravamo alla periferia dell'impero calcistico, l'Italia che vinse quel mondiale soffriva a Vigo. Noi stavamo nel girone di Bilbao-Valladolid. Mai pensavamo di poter andare oltre. Per questo si beveva e si scherzava. Chi avrebbe potuto accorgersi di una diretta da Valladolid. Microfono al Virbere della France Presse che sapeva tutto su Platini e la sua vita anche fuori dal calcio, ma ecco l'invasione di Fahad Al Ahmad al Sabah, presidente della federazione calcistica del Kuwait, fratello dell'emiro, poi caduto nella Guerra del Golfo 9 anni dopo. La Francia vinceva già, un assist di Platini smarcò Giresse per la quarta rete. Tutti distratti, anche l'arbitro sovietico Stupar che poi fu radiato per aver dato retta allo sceicco che urlava per far annullare il gol. C'era stato un fischio, forse da tribune distratte anche se c'erano 30mila persone. Beppe Viola saltò nella diretta, era una cosa da cinema, da No tu no. Era vera commedia dell'arte e ci accompagnò anche nell'imprevisto viaggio per la seconda fase, quella della verità, a Barcellona dove arrivammo mentre molti stavano facendo la guerra al Pisapia organizzatore dei viaggi per avere un posto sull'aereo che avrebbe dovuto riportare in Italia la Nazionale perché Argentina e Brasile ci avrebbero sistemato. Non accadde e fu l'apoteosi per uno come Beppe Viola, anche lui scettico, ma così bravo da non farsi smascherare da Gentile su Maradona, dai brasiliani incantati da Pepito Rossi.
L'atmosfera del Derby club al Sarria, una miniera che avrebbe voluto poi utilizzare come aveva fatto tante volte per Boldi, Teocoli, Cochi e Renato, Porcaro, Jannacci, Andreasi, Magni, Villaggio. Lino Toffolo, il suo compagno di bevute preferito. Non ha fatto in tempo, ma gli appunti c'erano. Voleva sapere tutto del nostro viaggio verso la tribuna reale dove stava Pertini in festa per il mondiale del suo amico Bearzot. Legnate della guardia civica, il caporedattore del Giornale, il mitico Sofisti che voleva sapere cosa aveva detto il Presidente gelando il tapino che sussurrava nella bolgia «il più bel giorno della mia vita».
Si accontenta di poco, fu la risposta che fece impazzire Beppe, ed era su quello che Viola avrebbe voluto scrivere un altro Romanzo popolare. Per far divertire i guitti che altrimenti avrebbero passato la notte a cercare risposte che soltanto lui riusciva a trovare.(3. Continua)
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