Stephen King ha paura dei suoi film

«Quando si adatta un romanzo per il cinema è come sedersi su una valigia stracolma per cercare di tenere tutto dentro. È un po’ come lavorare per Selezione dal Reader’s Digest». Consapevole di questa sua affermazione, Stephen King, ogni volta che una sua storia è stata adattata per il cinema (che dietro la macchina da presa ci fossero maestri indiscussi come Stanley Kubrick, David Cronenberg, John Carpenter, Brian De Palma, George Romero, Rob Reiner, Bryan Singer, oppure abili mestieranti come Mick Garris, Tom Holland, Tobe Hooper o Mary Lambert), ha accettato di buon grado di essere spettatore degli adattamenti, fedeli o infedeli, dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Mantenendo nel suo giudizio finale lo stesso atteggiamento che aveva quando, ragazzino, divorava pellicole horror come I was a Teenage Werewolf.
Così, in maniera oculata, il grande maestro della suspense americana ha deciso di editare cinque dei suoi racconti adattati dal mondo di celluloide in un volume intitolato Stephen King Goes to the Movies (Sperling & Kupfer, pagg. 144, euro 14,90). A ognuna di queste storie sono dedicate alcune intense pagine introduttive firmate dallo stesso King che ricorda come 1408 sia nato dall’esigenza di avere un racconto-modello da montare e smontare nel suo manuale esistenziale di scrittura On Writing; mentre Il compressore deve molto al lavoro alla pressa da stiro della Lavanderia Stratford svolto per anni da sua madre, ma anche al fatto che lo stesso King, dopo il diploma, sia stato per un certo periodo l’addetto alle lenzuola dei motel in una grande lavanderia. Anche in Uomini bassi in soprabito giallo l’elemento autobiografico è molto forte e il narratore americano confessa che, in realtà, si tratta del primo abbozzo di un romanzo che prima o poi terminerà. Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank fu invece la sua prima prova nel territorio delle prison-stories e la riduzione cinematografica di Frank Darabont fu per lui «qualcosa di epico».
Per quanto riguarda infine un horror rurale (spaventosamente inquietante nel raccontare sanguinari sacrifici pagani) come I figli del grano, King afferma che la sua storia «ha generato più seguiti spazzatura di qualsiasi altro racconto della sua bibliografia». «Scrittura e finzione cinematografica - come spiega il Re di Bangor - si differenziano per un particolare fondamentale: la prima è quasi sempre l’atto creativo di un singolo individuo, la seconda un’impresa nata dalla collaborazione di molti: dal regista al costumista allo scenografo. Persino i rumoristi (i tecnici del suono che ricreano l’incedere dei passi, il latrato dei cani, il canto dei grilli e molto altro) hanno un loro ruolo. È un miracolo che gli adattamenti cinematografici possano funzionare. Quando questo accade spesso lo si deve a una mente brillante che è riuscita a concentrare e orientare tutti quanti in vista di uno scopo ben determinato».
Ed è per questo motivo che King si sente in dovere di dedicare integralmente il suo volume a un uomo davvero speciale per lui: «A Frank Darabont che ha avverato i miei sogni». Il regista americano iniziò la sua carriera del 1983 autoproducendosi The Woman in the Room (dall’omonimo racconto di King), film che lo mise in corsa per l’Oscar come miglior produzione indipendente. E Darabont sfiorò in seguito la prestigiosa statuetta anche con Le ali della libertà (fedelmente tratto da Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank), una pellicola che «riluce di pura meraviglia... Il miglior film sull’amore per il prossimo e sulla necessità di sopravvivere». I successivi Il miglio verde e The Mist hanno confermato la sua capacità di trasporre su pellicola l’immaginario del popolarissimo scrittore del Maine, con una sensibilità e creatività che li hanno trasformati in «film d’autore». E per scoprire quale sia la speciale top ten cinematografica di King basterà ai «suoi fedeli lettori» sfogliare le pagine finali di Stephen King Goes to the Movies, dove troveranno anche una completa videografia delle sue opere.
Fra i non preferiti, c’è Shining di Stanley Kubrick che sconvolse a tal punto King da fargli dire all’epoca che si trattava di «un bellissimo motore senz’anima». Anche l’ultimo romanzo siglato dal maestro del brivido intitolato The Dome (Sperling & Kupfer), che uscirà fra pochi giorni in Italia in anteprima mondiale, ha un legame profondo con Hollywood e dintorni. Infatti, King cominciò a lavorarci nel ’78, ma purtroppo perse misteriosamente le settanta pagine di manoscritto che aveva redatto all’epoca. Dopodiché, mentre si trovava tempo dopo rinchiuso in un appartamento di Pittsburgh durante le riprese di Creepshow, riuscì nuovamente a stendere 500 pagine dell’opera e la ribattezzò The Cannibals. Non convinto del risultato, l’autore scagliò contro il muro l’intero plico di fogli che lo componeva. Ma, come sua moglie Tabitha anni prima aveva salvato dal cestino Carrie, inviandolo alla Doubleday e facendo così decollare la carriera del marito, anche The Cannibals fu in qualche modo preservato e si trasformò definitivamente in The Dome che racconta l’avvento di fatti apocalittici nel paesino di Chester’s Mill.
Una misteriosa cupola trasparente e indistruttibile cala sulla cittadina del Maine separandola dal resto del mondo. Ne deriva una situazione di isolamento che produrrà morte fuori e dentro il centro abitato (i primi a farne le spese sono due ignari aviatori e una marmotta, tranciati dal possente cilindro isolante) e farà regredire i protagonisti a uno stadio ferino. King racconta in maniera angosciante come la violenza possa esplodere all’interno di una piccola comunità isolata dal resto del mondo e diabolicamente suggerisce nello slogan di lancio: «Immagina un formicaio e immagina una lente d’ingrandimento. Immagina di essere la formica mentre un bambino crudele maneggia una lente di ingrandimento». I lettori ritroveranno intatte in The Dome le atmosfere di sue precedenti storie dedicate al tema dei sopravvissuti come L’ombra dello Scorpione e The Mist e potranno persino leggere buona parte del manoscritto originale di The Cannibals, messo a disposizione e da scaricare gratuitamente sul sito www.stephenking.com.
Protagonisti delle vicende di questo romanzo in cui la cupola del titolo farà da spartiacque fra buoni e malvagi, fra onesti e disonesti, sono un ex marine che odia la guerra e ogni tipo di violenza, un ausiliario paranoico, un venditore di macchine usate dagli atteggiamenti mafiosi, un giornalista d’assalto, un predicatore fondamentalista e un ragazzino di quindici anni velocissimo nell’uso dello skateboard. Una galleria di personaggi che, come al solito, Stephen King dipinge con forte emozionalità, riuscendo ancora una volta a catturare magneticamente l’attenzione del lettore. D’altronde, ha dichiarato spesso che «i miei libri sono tutti emotivi. Lo so che mi definiscono uno scrittore horror, e io non ho mai fatto obiezioni a questa etichetta, ma non l’ho neppure davvero accettata. A me interessa aggredire le emozioni dei lettori, scipparle.

Non credo che i libri debbano essere una questione intellettuale. Il mio lavoro è quello di farvi bruciare la cena mentre leggete. Se poi spegnete la luce e avete paura che ci sia qualcosa sotto il letto, meglio ancora».

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