Stones, la classicità non invecchia

Su «The bigger bang», ultimo cd di Jagger e soci oggi in uscita, la critica si è divisa. Ma l’anima rock della band è ancora viva

Stones, la classicità non invecchia

«È dura dimenticare / tutto sembra come ieri», mette le mani avanti Mick Jagger in It wont take long. Del resto, perché dimenticare quanto di grande i Rolling Stones hanno dato al rock, a partire dal deflagrante big bang di Satisfaction? E perché pretendere dalla più grande band di tutti i tempi un «aggiornamento» che ne oscurerebbe la grandezza a beneficio d’un giovanilismo ignavo e modaiolo? Così gli Stones, rientrando in studio dopo otto anni, tornano orgogliosamente alle loro radici rock-blues, consapevoli che la classicità è altro dal vecchiume: questo subisce l’oltraggio del tempo, quella lo annienta.
Così esce, dopo otto anni di silenzio creativo, The bigger bang e subito lievita tra i critici il vecchio giochino delle fazioni contrapposte. Chi è pro e chi contro: per esempio Riccardo Bertoncelli, nostro maestro, parla di «album onesto ma faticato», pieno di autocitazioni e concede, bonario: «Niente di drammatico, è la vecchiaia». Altri, come Giulio Brusati, ribattono: «Se queste Pietre sono vecchie, Oasis e Coldplay sono antichi». E infatti. The bigger bang è un suadente concentrato di classicità, non di vecchiezza. Una sfida lucente alla mutevolezza lunatica delle mode e agli stereotipi del marketing teenageriale - non però all’attualità: si ascolti come il rovente anatema di Sweet neocon, dedicata a Bush, s’inserisce in una tematica già autorevolmente perlustrata da Springsteen, Rem, Patty Smith, Green Day - condotta con un’energia e una passione che con la senilità hanno poco da spartire. Non fosse altro per la smagliante prova vocale di Jagger: sardonico e risentito, sbruffone e trepidante, pervaso di veleni blues e soul come da anni non gli accadeva. E all’occorrenza perfino struggente («Percorro per mille anni le strade dell’amore / e sono piene di lacrime»). Sorretto poi da un gioco di squadra ricco di compatta energia: chitarre - Keith Richards e Ron Wood - invasate o chiacchierine, batteria - Charlie Watts - perentoria e jazzy, con in più il basso elegante di Daryll Jones e le inventive tastiere di Chuck Leavell.
Del resto, nella grezza primordialità di questo rock figlio del blues e vibrante di sympathy for the devil, non mancano neppure le prelibatezze: la lunga scala discendente di Let me down slow e la pittura d’ambiente di Rain fall down, il purissimo blues di Back of my hand e i cori gospel di Biggest mistake, la dolcezza assorta di This place is empty, scritta e cantata da Richards, e i riff scorticanti di Driving too fast.
Vecchi, insomma, questi Rolling Stones del nuovo millennio? Superati? Ripetitivi? L’ascolto del nuovo album non sembra dimostrarlo, confermando semmai che la classicità non è mai fuori tempo.

Non invecchia, la classicità: invecchiano, caso mai, gli Oasis e i Blur, nascono già vecchi i Coldplay e i Marilyn Manson, insomma ogni forma di rock che smarrisca i furori e la carnale euforia delle origini, per inseguire soltanto le declinanti lusinghe del mercato.

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