Storia di «Gatti nell’arte» dall’Egitto al Novecento

Venerati come divinità o temuti come demoni, coccolati come peluche o guardati con sospetto, i gatti da cinquemila anni accompagnano l'esistenza dell'uomo. Sempre a proprio agio in qualsiasi luogo vengano ospitati, dal casolare contadino alla reggia aristocratica, col tempo e a fortune alterne, si sono affermati nella storia sociale, culturale, religiosa e folcloristica degli uomini, divenendone spesso gli involontari protagonisti. Il nuovo volume «Gatti nell'arte» (Sassi Editore), che sarà presentato il 5 giugno presso la Mondadori Multicenter (Piazza Duomo 1, ore 18.30) dall'autore, lo storico d'arte Stefano Zuffi, accompagnato dal poeta Maurizio Cucchi, focalizza la sua attenzione sulla presenza del gatto in centinaia di capolavori dell'arte figurativa, dal periodo delle civiltà antiche fino al XX secolo. La fortuna «artistica» del gatto è certamente legata alle sorti che questi felini hanno avuto nel corso della storia. Non si può non ricordare ad esempio la grande importanza che all'animale era riservata nell'antico Egitto. Fu proprio in quel periodo che, a quanto pare, si ebbe il passaggio del gatto da selvatico a domestico. I benefici che l'animale portò a quelle popolazioni, liberandole dall'eccessiva proliferazione di roditori e volatili che distruggevano i raccolti, lo aiutò a guadagnarsi la fama di simbolo di prosperità, tanto da essere scelto per offrire il proprio volto alla dea Bastet. Durante le civiltà greca e romana, per quanto non più con valenza divina, la presenza del gatto accanto all'uomo fu sempre accolta con benevolenza. La stessa opinione positiva continuò anche nel Medioevo, e lo dimostrano le immagini di tanti codici miniati. Un decisivo cambiamento di giudizio si ebbe invece con l'avvento del Cristianesimo. Il gatto, forse per quella sua natura un po' misteriosa e solitaria, passò rapidamente nelle ombre della superstizione, divenendo il demoniaco compagno delle streghe. Fu così che i felini cominciarono ad essere perseguitati come simboli di eresia o paganesimo, di maledizione o malaugurio. Questa cattiva fama, pur diminuendo e in parte modificandosi, continuò nei secoli, tanto che fino al Seicento, capitò di poter assistere a veri e propri stermini in nome della «caccia alle streghe». Eppure già nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, geni come Durer e Leonardo, Tintoretto e Veronese furono ammiratori dei gatti e li inserirono nei loro dipinti in ruoli sempre più significativi. Anche la Controriforma incoraggiò la riabilitazione del gatto, tanto che l'animale sarebbe poi stato collocato come elemento rassicurante di pacifica quiete anche in scene sacre come l'«Annunciazione» o la «Sacra Famiglia». Nel Seicento il felino divenne presenza costante nella pittura olandese, da Rembrandt a Rubens, come poi nel Settecento anche in quella Rococò. Con l'Ottocento, in un'Europa ormai rigenerata dall'Illuminismo, la figura del gatto, salvo qualche eccezione, come nell'opera di Goya, è ormai vista sotto una luce totalmente favorevole. Nei dipinti impressionisti e postimpressionisti, da Manet a Renoir, da Gauguin a Bonnard, esso appare come un vezzeggiato animale da compagnia.

Il suo successo continua anche nel Novecento, quando grandissimi artisti, pur di opposte correnti, hanno voluto confrontarsi con la sua figura ormai ricca di simboli e tradizioni. Così Picasso e Matisse, Kirchner e Marc, Mirò e Chagall, fino a Warhol, quasi l'incontro con un gatto fosse divenuto ormai tappa culturale imprescindibile per ogni possibile percorso artistico.

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