
Come venivano rappresentati generalmente gli ebrei nei film proiettati durante il regime fascista? E come si sono comportati, dopo la Liberazione, molti di quegli attori e registi che avevano contribuito alla realizzazione di opere antisemite? A questi due interessanti interrogativi ha cercato di rispondere Luca Martera, documentarista, autore televisivo, saggista, esperto di archivi e specialista in ricerche storico-investigative, giornalistiche e audiovisive tra Italia e Stati Uniti d'America, inervistato dal Giornale. Il suo ultimo libro, uscito a pochi giorni dall’ottantesimo anniversario della caduta della dittatura nazifascista, si intitola "Usurai, seduttori e cospiratori – L'antisemitismo nel cinema italiano prima della Shoah" (Editore Belforte di Livorno, con il patrocinio dell'UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) e ripercorre in maniera dettagliata (e per la prima volta in assoluto) le pellicole girate nel periodo che va dall'introduzione del sonoro nel 1930 alla caduta della Repubblica di Salò nel 1945. Il tutto al termine di un capillare lavoro di ricerca e di confronto incrociato in centinaia di archivi audiovisivi e biblio-cartacei di vario genere su tutto il territorio nazionale e internazionale.
La prima domanda posta ha una risposta sostanzialmente "semplice". Risultato di quattro anni di lavoro, il saggio di Martera offre una gran varietà di contenuti inediti ritrovati grazie al quale si può constatare come una cinematografia antisemita ci fu quindi eccome nel nostro Paese. Basti pensare che, in questi quindici anni presi in esame, uscirono due film interamente a tematica antisemita ("La Signora Paradiso" del 1934 di Enrico Guazzoni e "Piazza San Sepolcro" del 1943 di Giovacchino Forzano), un'altra ventina circa di opere a soggetto con battute e personaggi secondari e un'altra ventina tra cinegiornali e documentari realizzati dall'Istituto Luce e dalla Incom. Uno sforzo produttivo che, fortunatamente, non sortì gli esiti nefasti della propaganda nazista, che invece usò alcune delle sue opere antisemite come vere e proprie armi per istigare all'odio e alla persecuzione con atti violenti; ma che comunque contribuirono a diffondere un atteggiamento pregiudizievole e di odio nei confronti degli ebrei italiani.
Il secondo quesito presentato da "Usurai, seduttori e cospiratori" è – se possibile – ancora più interessante nella propria analisi. Viene svelata, infatti, una serie di nomi che, dopo avere esaltato a vario titolo il regime fascista con i loro lavori cinematografici, nell'immediato secondo Dopoguerra sono stati innalzati (quasi) unanimemente a grandi icone antifasciste pienamente inserite nei salotti intellettuali di sinistra della Roma anni '50. C'è il caso del critico antisemita Luigi Chiarini, diventato poi un'autorità intoccabile dopo il '45, venendo anche nominato primo docente di storia e critica del cinema all'Università di Pisa e dirigendo numerose edizioni del Festival di Venezia. Ci sono le storie di registi filofascisti, probabilmente poco noti al grande pubblico, come Duilio Coletti e Goffredo Alessandrini: il primo darà vita, nel 1949, a "Il grido della terra" dove lo sfondo è quello della fondazione dello Stato di Israele, mentre il secondo – già vincitore della "Coppa Mussolini" nel '38 con "Luciano Serra Pilota", nonché regista del controverso "Addio Kira!" – dirigerà dieci anni più tardi la sua versione de "L'Ebreo errante", mettendo in scena tra i primi la Shoah.
Emblematica la biografia da voltagabbana di Domenico Paolella, autore dei più feroci articoli antisemiti e di una trentina di cinegiornali di propaganda fascista, poi aderente al Partito d'Azione e realizzatore del documentario "L'Italia s'è desta" sul ruolo della Resistenza dal 1943 alla liberazione del Nord. Nel trasformismo antifascista non è da meno Carlo Lizzani: prima recensore entusiasta on prima fila del film antisemita della Germania nazista "Süss l'ebreo" e collaboratore della rivista "Cinema" di Vittorio Mussolini, poi regista, in quota comunista, di "L'oro di Roma" (1961) sull'ultimatum dei nazisti alla comunità ebraica romana e di "Hotel Meina" (2007) sul primo eccidio nazista di ebrei, nel settembre '43, vicino al Lago Maggiore. Da sottolineare, altresì, la storia di Romolo Marcellini, il quale passa rapidamente da autore di documentari, dal taglio celebrativo, sulle imprese dei volontari fascisti partiti in sostegno dei franchisti contro il governo spagnolo a co-autore del documentario pacifista "Guerra alla Guerra" (1946) e confezionatore del cortometraggio filoebraico "Israele a Roma" ('48).
E poi, "dulcis in fundo", il focus su un’altra colossale contraddizione: quella di Roberto Rossellini, uno dei padri del Neorealismo. Dopo avere girato tre film di propaganda fascista, il regista romano diventerà quello più famoso nel Dopoguerra con "Roma città aperta", la pellicola del 1945 che farà acquistare risonanza globale al movimento culturale, nato e sviluppatosi in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e legato a doppio filo con l'intellighenzia di sinistra. "Fu un film autorizzato dalla prima all'ultima scena dagli Alleati, nelle persone del capo dell'OSS (l'antenata della CIA) a Roma e soprattutto del capo della censura del PWB, l'unità della divisione per la guerra psicologica, comunicazione e propaganda angloamericana: ovvero Alexander Mackendrick, con cui Rossellini è rimasto in ottimi rapporti anche negli anni successivi", racconta in esclusiva al Giornale Luca Martera nel confutare la vulgata secondo la quale il Neorealismo sia nato da una scuola e da un'"avventura" di matrice interamente italiana, stante anche il fatto che c'era la mano economica statunitense.
Bisogna tenere conto, infatti, che fino al 1948 bisognava dare al mondo l'idea che l'Italia fosse stata "una nazione che avesse lottato sì contro il nazifascismo, ma secondo un'impostazione di valori cristiani universali, che dovevano prevalere su quelli comunisti". Quindi, per gli agenti dell’OSS, che erano tutti agenti civili che lavoravano come pubblicitari, era "fondamentale avere un rapporto privilegiato con la Santa Sede". Da qua, la nascita a tavolino del Neorealismo, che avrebbe avuto quindi poco o nulla di originale tra le menti italiche. E con tutta probabilità, in questo controverso scenario, appare dirimente il fatto che in "Roma città aperta" non si faccia alcun cenno all'attentato di via Rasella e al successivo eccidio delle Fosse Ardeatine e al salvataggio di ebrei da parte di civili e preti cattolici durante l'occupazione nazista. La scelta di omettere alcuni aspetti sarebbe stata dettata dal fatto che questi "avrebbero potuto entrare in conflitto con la 'narrazione ufficiale' della Resistenza al nazifascismo in attesa dell'arrivo degli Alleati".
Rossellini si occuperà degli ebrei in un episodio di "Paisà" del 1946, suscitando non poche perplessità mostrando alcuni frati dell'Appennino emiliano che vogliono forzatamente convertire i due cappellani militari (uno ebreo e l'altro protestante). Senza dimenticare il successivo film del '54 "Dov'è la libertà?" che provocherà una durissima reazione da parte della comunità ebraica romana per come era stato rappresentato un sopravvissuto della Shoah. Solamente nel finale de "Il Generale della Rovere" il regista capitolino riuscirà a limitare i danni d'immagine mostrando il calvario degli ebrei nel carcere milanese di San Vittore nella loro ultima notte prima di essere giustiziati dai nazisti.
Per un'inversione a U completata da uno dei tanti "canguri giganti" che, con la caduta del fascismo, sono riusciti a cambiare repentinamente bandiera e a schierarsi intellettualmente senza "se" e senza "ma" con i nemici del giorno prima.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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