Jonathan Littell è diventato famoso per il romanzo Le benevole (Einaudi). Nelle mille pagine uscite nel 2007, lo scrittore raccontava la Seconda guerra mondiale dal punto di vista di Maximilien Aue, ufficiale delle SS. Il libro scatenò un dibattito di portata europea sul «revisionismo» storico ma fece discutere anche per le scene crude, al limite del sopportabile, con le quali erano ricostruiti i massacri nazisti in Ucraina. Dopo quello sforzo immane, Littell ha pubblicato numerosi saggi e reportage, lasciando in secondo piano la letteratura.
Un luogo scomodo (Einaudi, pagg. 370, euro 22) rientra, forse, nella categoria del lungo (lunghissimo) reportage. Littell torna in Ucraina per scrivere la vicenda dimenticata di Babyn Yar, la fossa comune in un quartiere alle porte di Kiev, dove furono sterminati tutti gli ebrei della città, una fila dopo l'altra, una scarica di fucilate dopo l'altra, poi di mitragliatrice per accelerare. Tra il 29 e il 30 settembre 1941 trovarono la morte circa trentatremila ebrei. Le vittime erano convinte di andare alla deportazione nei ghetti del nord. Presto si rendevano conto di avanzare verso la morte immediata. Dopo gli ebrei, venne il turno dei Rom, dei prigionieri di guerra, degli oppositori politici, dei pazienti dell'ospedale psichiatrico. Impossibile dire la cifra complessiva delle vittime ma siamo oltre i centomila. I corpi furono fatti scivolare in un burrone naturale con l'aiuto di altri prigionieri, poi eliminati non appena ebbero finito l'atroce lavoro. Quando la sconfitta tedesca, sul fronte orientale, diventò realtà, il comando nazista fece riesumare e bruciare i corpi per nascondere la tragica verità. Dopo la guerra, per anni, a Babyn Yar, era possibile imbattersi in ciocche di capelli, ossa, piccoli oggetti personali «rigurgitati» dalla terra. Infine, le autorità sovietiche, che non amavano gli ebrei, decisero di coprire tutto quanto con le acque reflue provenienti dalle fabbriche del quartiere. Il burrone di Babyn Yar sparì. Al suo posto, un parco e un bosco. All'inizio, non c'era traccia di monumenti commemorativi. Oggi ve ne sono molti, uno per ogni «categoria» sterminata e sepolta in quel luogo maledetto. Una frammentazione della memoria che rende complicato capire l'evento nella sua completa crudeltà.
Mentre Littell, faticosamente, raccoglie testimonianze indirette di quanto accadde, la Russia invade l'Ucraina. Prima di concentrare tutto lo sforzo bellico sul Donbass, l'esercito russo prova ad attaccare la capitale, ma viene respinto alle porte di Kiev. Quando i soldati di Mosca si ritirano, nel sobborgo di Bucha vengono alla luce atrocità e crimini di guerra. Inizia così un reportage nel reportage. Littell evita di prendere posizione sul recente conflitto, ma mette in luce sia le colpe di Vladimir Putin, sia le contraddizioni di Kiev. Una parte dell'identità ucraina è fondata sugli eroi del nazionalismo. Peccato fossero schierati con i nazisti, anche a Babyn Yar, e impegnati in operazioni di pulizia etnica nel tentativo di far sparire i polacchi dalle zone di confine.
Quando Littell arriva a Bucha, ogni traccia, ogni indizio è stato rimosso, proprio come a Babyn Yar, anche se è più facile, ovviamente, raccogliere testimonianze di prima mano. Come quella di Bondarenko, ex galeotto e prete. Catturato, torturato e salvato rocambolescamente dalla fucilazione grazie a due soldati russi di leva. Gli «interrogatori» sono di crudeltà inenarrabile. Ti sparano alle gambe e alle braccia, per tenerti in vita ma farti soffrire, se non parli, ma anche se parli, può finire in soli due modi: un colpo allo stomaco per farti rantolare e invocare la morte; un «generoso» colpo alla nuca per chiudere la faccenda.
Anche la storia di Bucha, come quella di Babyn Yar, è una storia di sostanziale rimozione dell'orrore. Si cancella il possibile, nel minor tempo possibile. Per evitare di essere inseguiti dai ricordi, per cancellare la paura. Ma anche per evitare scomode riflessioni sul proprio passato. Un luogo scomodo raccoglie anche le fotografie di Antoine d'Agata oltre a immagini d'epoca. Alcuni scatti ritraggono cadaveri o resti umani, eppure non sono quelli a scatenare la massima angoscia. Una radura anonima, un palazzo appena diroccato, un prato: non si vede nulla. Ma ormai il lettore ha capito. I luoghi dove non si vede nulla sono quelli dove è successo quasi tutto, spesso un «tutto» che va al di là di ogni immaginazione. Per quanto si possa rimuovere l'orrore, in questi luoghi restano «fantasmi» che «tolgono l'innocenza alle cose più innocenti della vita».
Un luogo scomodo ci costringe a pensare a ciò che vorremmo rimuovere. Non solo la morte. Ma anche la crudeltà di cui l'umanità non è mai avara.
Scrive Littell: «Se provo a immaginare un uomo che tortura a morte un altro uomo e poi lo abbandona senza nemmeno finirlo per andare a godersi insalata e maionese scambiando battute sconce con i suoi compagni, mi trovo di fronte a una vertigine, a un buco nero del pensiero. (...) No, l'uomo che ha fatto tutto questo è un uomo normale». Un uomo comune. Come voi e me.
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