Addis Abeba. Capitale d'Etiopia, sede dell'Unione Africana. Addis Abeba, giustamente soprannominata The Bubble, è il solito crocevia di costruttori, membri di ONG, incaricati di affari e di difesa, funzionari di ambasciata, delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea. Si incontrano nei soliti luoghi di aggregazione, dai ristoranti italiani Mamma mia e Castelli ai bar più esclusivi come The Union Coktail, passando dagli hotel più stellati come l'Hilton o il Marriot, dove le cifre stampate sugli scontrini non sono poi così diverse da quelle occidentali. Del resto la città ha subito un'inflazione incredibile da quando è diventata il caravanserraglio globale del Corno d'Africa. La stabilità ha un costo e a pagarne il prezzo più alto sono la maggioranza degli etiopi, in una società prevalentemente agricola, per i quali Addis Abeba è praticamente diventata inaccessibile. A beneficiare di tutto questo è stata la classe cosmopolita (residente e di passaggio), e la compagnia di bandiera Ethiopian Airlines, che ha visto il fatturato crescere anno dopo anno, e avviarsi da qui a cinque anni alla costruzione del più grande aeroporto del continente proprio nella capitale.
Fuori da The Bubble però è tutta un'altra storia. O meglio è lì che si intravedono le sfide decisive per la tutela dell'integrità territoriale e la stabilità politica del Paese. Una storia tutta africana che è strettamente legata al ritorno dirompente dell'intera regione nella geopolitica afro-asiatica. Se Gibuti, rimane per via della sua posizione geografica il maggiore snodo strategico, militare e logistico, nonché una torre di osservazione collocata sulle grandi rotte marittime, tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano, l'Etiopia, pur non affacciandosi sul mare, è a tutti gli effetti il Paese dove oggi si concentrano allo stesso tempo i grandi player del mondo. Anche se oggi la Cina resta la nazione più attiva nel campo degli investimenti. Dentro e fuori The Bubble i sinogrammi sono stampati sulle insegne dei simboli del miracolo economico etiope. Dal grattacielo più alto d'Africa fino al Palazzo dell'Unione Africana, passando dai mezzi pubblici, ai parchi e alla tramvia nella piccola metropoli, e ancora dalle fabbriche ai cantieri disseminati su tutto il territorio, il marchio è sempre lo stesso: «made in China». E se l'Etiopia non è membro della Belt and Road Initiative, il governo di Addis Abeba ha manifestato più volte la volontà di agganciarvisi tramite il porto di Gibuti.
Negli ultimi anni è stata applicata nel Corno d'Africa una strategia di «impegno minimo» da parte dell'amministrazione Trump, che ha favorito l'egemonia di Turchia (Somalia) e Cina (Etiopia) e in parte anche della Russia che a differenza degli altri due Paesi persegue un approccio di «opportunismo impegnato» nel campo della Difesa e della diplomazia da remoto. Eppure con Joe Biden alla Casa Bianca il metodo cambia. L'obiettivo della nuova amministrazione sembra quello di voler recuperare il terreno perduto, e per farlo ha deciso di inserirsi nella pacificazione della guerra civile nel Tigray al confine con l'Eritrea. Infatti, dopo le parole del Segretario di Stato Anthony Blinken che ha parlato espressamente «di pulizia etnica» (accusa respinta dal governo di Addis Abeba) è arrivato a fine marzo il viaggio del suo emissario Christopher Coons, senatore dem, nonché la possibilità di affidare al diplomatico Jeffrey Feltman l'incarico creato ad hoc di inviato speciale presso le Nazioni Unite nel Corno d'Africa. Il cambio di marcia dell'Amministrazione Biden su un terreno lasciato scoperto dai cinesi, quello della diplomazia e dei diritti umani, ha velocemente resettato gli scenari tanto che lo stesso primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha dovuto ammettere la presenza di truppe eritree nel nord, e concordare (23 marzo) insieme al suo omologo eritreo Isaias Afewerki, il ritiro ufficiale (4 aprile). «Il concreto rischio per il premier, quindi, è quello di dover presto nuovamente fronteggiare le spinte autonomiste delle comunità etniche del Paese», ha spiegato a Il Giornale Nicola Pedde, direttore dell'Institute Global Studies.
Ma la crisi del Tigray non è l'unica occasione per gli Stati Uniti per tornare sulla scena diplomatica della regione. Negli ultimi giorni, si è intensificato il processo di guerra e di pace tra Egitto, Etiopia e Sudan per quanto concerne la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), la diga che dal 2011 il governo di Addis Abeba sta costruendo sul Nilo Azzurro, un progetto dal valore di 5 miliardi di dollari, necessario per lo sviluppo e l'elettrificazione del Paese. Il governo del Cairo che ha più volte minacciato di usare la forza, anche a costo di distruggerla (allora col consenso nemmeno troppo velato di Donald Trump), non gioca al momento un ruolo secondario nei movimenti delle milizie Gumuz, il cui unico scopo è il blocco dell'arteria stradale principale che porta alla diga, con il rischio altissimo di scatenare una guerra civile nella regione nonché ritardando la costruzione della diga.
Per l'amministrazione Biden, dopo l'intervento per la pacificazione apparente del Tigray, anche questo conflitto trans-frontaliero potrebbe essere sfruttato, nelle vesti da mediatori, per invertire la politica troppo filo-egiziana del suo predecessore e ricostruire un rapporto diplomatico con il primo ministro etiope Abiy Ahmed nella prospettiva di un contenimento cinese nel Paese, e in tutto il Corno d'Africa.
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