Maria Vittoria Cascino
A Reggio Emilia lo attaccano ferocemente. Lo insultano. C'entra il suo ultimo libro. C'entra quel titolo che affronta a muso duro chi resta di allora e chi gestisce l'oggi. Giampaolo Pansa scrive La Grande Bugia, Sperling&Kupfer, 468 pagine, 18 euro. A Reggio la prima nazionale e l'incursione di militanti antifascisti, «dodici apostoli rossi dalle teste rasate». Dopo gli insulti, la solidarietà del Presidente Giorgio Napolitano. A chiudere il cerchio sul libro che apre riferendo il suo primo messaggio dal Parlamento: «Ci si può ormai ritrovare superando vecchie laceranti divisioni nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza pur senza ignorare zone d'ombra, eccessi e aberrazioni». Che chiude riagganciando le stesse parole. Niente. Deflagrazione totale. Pansa non trova più l'avvocato Alberti del Sangue dei Vinti e Sconosciuto '45.
Lo specchio di ritorno è Emma Cattaneo, nipote di Alberti, avvocato anche lei. Un dialogo-pretesto: Pansa attaccato dalla sua stessa parte culturale. Pansa che fa un test «sul grado di tolleranza della sinistra che non esiste più». Pansa che riflette su come per sessant'anni «abbiamo narrato la guerra civile del 1943-45. E la riflessione mi ha suggerito l'immagine de La Grande Bugia». Diario, raccolta di testimonianze, risposta agli attacchi. Ha buttato dentro tutto. Feroce e ironico, Un altro giro di vite. La sua «patria morale è la Resistenza». È cresciuto studiandola. Gli anni negli archivi piemontesi e genovesi. L'incontro con Genny Burlando all'istituto di Genova. Lei, segretaria del Cln clandestino ligure, e il suo sguardo disincantato sui documenti che Pansa annotava. Lei che gli parla delle donne in guerra, «sono loro ad aver patito di più. Sulle ragazze partigiane i fascisti hanno compiuto spesso violenze bestiali. Ma anche i partigiani non sono stati da meno. Se un'ausilaria di Salò finiva nelle mani di una delle nostre bande, quasi sempre la sua sorte era segnata».
Pansa aggancia gli episodi della sua giovinezza. Rosicchia e accorpa. Che questo approccio alla storia arriva da lontano. Mica roba di ieri. Frammenti dalla redazione del Giorno, dove da retroterra opposti si dialogava. Democrazia. Poi più niente. L'ha fatta grossa col mettere in piazza le voci strozzate nella gola dei vinti. Eccome se gliene hanno dette. Lui ha annotato tutto e adesso risponde a fendenti. A Giorgio Bocca e a Sandro Curzi. Lo zoom sugli «uomini di marmo» di Rifondazione Comunista. Una scuola di pensiero a marce serrate. L'Anpi schierata che stronca il Sangue dei Vinti senza averlo letto. Il ping pong di Pansa che scopre i nervi. Intercalato dagli incontri alle presentazioni dei suoi libri. Con le trasmissioni tivù che misero a confronto gli opposti schieramenti. Con Italo Pilenga, l'imprenditore bergamasco a capo dell'Associazione nazionale famiglie caduti Repubblica Sociale, che a proposito dei 20.000 giustiziati dopo la Liberazione dichiara: «Penso che la cifra si possa raddoppiare. Per esempio per la colonia di Rovegno, Val Trebbia, un documento della questura di Genova parla di seicento fucilati. Ma i corpi recuperati sono metà della metà». Provoca Pansa. Li stana. Con le leggende da sfatare. Sui veri obiettivi del Pci di allora. Su quanti antifascisti davvero ci fossero in Italia. Sulla «zona grigia». Sui contadini del Monferrato che «mica stavano tutti con i partigiani». Sui numeri veri della Resistenza. Spilli. Indizi. Poi la sterzata ancora sulle morti misteriose. Quelle della Sesta Zona partigiana della Liguria. La faccenda di Aldo Gastaldi «Bisagno», il cattolico comandante della Cichero, i suoi scontri con i vertici del partito e la strana morte in un incidente. Giallo su giallo. Pansa recupera i fatti di Bogli, frazione di Ottone, fra l'estate e l'autunno del 1944. Campo di raccolta di prigionieri fascisti. Lo controllava un partigiano «sadico, un po' pazzo, che si divertiva a torturare le prede che gli erano state date in custodia. Una parte dei prigionieri fu giustiziata nei boschi intorno a Bogli. Li avevano portati a morire sul dorso di muli: non potevano più camminare tanto i loro piedi erano straziati dalle piaghe».
Poi l'enigma Acquaviva, l'impiegato che ad Asti capeggiava un piccolo movimento alla sinistra del Pci. Morì ammazzato. Altro mistero. Una virata sul 25 aprile e le donne rasate dai partigiani. La ragazzina di 14 anni che viveva in un piccolo centro del Piemonte. Colpevole d'essere figlia di fascisti. Torna a casa per recuperare della biancheria. I partigiani la prendono e uno la rasa in piazza, segnandole il cranio con una svastica rossa. Passano gli anni. Lei diventa medico e si ritrova quel partigiano come paziente. Altro frammento. A darti la misura di quegli anni. Poi di nuovo ad agguantare i signori della Storia. Gli inquisitori del «diavolo revisionista». Pansa tira dentro anche Sergio Luzzatto, genovese, docente di Storia moderna a Torino e stringe sui due cardini del suo pensiero: «l'impossibilità d'una memoria condivisa tra fascisti e antifascisti» e la «condanna netta dell'uso pubblico della storia, fatto da persone che storici non sono». Tutto materiale che ti consegna. Panoramiche più che allargate. Poi la parentesi su chi sera già messo di traverso e il ritratto del «maledetto Pisanò». Ancora linciaggi. Pansa ci sguazza. Un lungo elenco di libri. Due per affondarci mani e piedi e bocca. Tanto basta per La Grande Bugia. La rovescia a fiume. Occhi spalancati sui fatti omessi per anni.
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