Boris, un ruolo shakespeariano che mette alla prova i grandi cantanti

Da opera bistrattata a classico del repertorio musicale: la fortuna del «Godunov» e la sfida di interpretarlo

Boris, un ruolo shakespeariano che mette alla prova i grandi cantanti

Dice solo cose orrende, ma le dice in una lingua a sé stante. Non è bella, ma è nuova. Questa era l'opinione di Pëtr Ciaikovskij, a suo tempo già considerato il più popolare compositore e operista russo, sulle opere del collega Modest Musorgskij. Un giudizio che rispecchiava un'opinione comune e che fu il motivo principale per il quale bisognò attendere ventiquattro anni, dalla creazione della versione ampliata nel 1872 alla prima versione rimaneggiata da Rimskij-Korsakov nel 1896, perché il Boris Godunov di Musorgskij tornasse ad essere preso in considerazione. Proprio grazie agli sforzi dell'amico compositore Rimskij-Korsakov che modificò pesantemente la struttura e la scrittura originaria, Boris è stato compreso nella sua unicità ed ora fa parte delle opere più alte non solo del repertorio russo. A chi si è scandalizzato degli arbitri del revisore, arrivando ad inorridire al solo nome di Rimskij, aveva già risposto l'interessato: «Se si arrivasse alla convinzione che l'originale abbia più meriti della mia revisione, bene, non c'è che metterla da parte e rappresentare Boris come nella partitura di Musorgskij».E così si è fatto progressivamente, abbandonando la revisione Rimskij per le versioni d'autore, addirittura riesumando il Boris originario 1869, quel primigenio Ur-Boris concepito prima di dover accogliere le richieste della commissione teatrale del Teatro Mariinskij che voleva un personaggio femminile importante.

L'ingresso trionfale del Boris ebbe la sua definitiva consacrazione nelle recite all'Opéra di Parigi, organizzate nel 1906 dal pontefice massimo dell'arte russa, l'impresario Sergej Diaghilev. A scatenare il pubblico però non furono né l'autore, né il revisore, né il direttore Blumenfeld, né i costumi stupendi di Ivan Bilibin, ma l'interprete del ruolo del titolo, lo zar della voce di basso, Fëdor aljapin. Dalla sua comparsa il ruolo di Boris è diventato il feticcio di tutti i bassi del mondo che hanno cercato di imitare la statura shakespeariana della sua prova di cantante attore realizzata attraverso una scrupolosa documentazione scientifica, la conoscenza di tutta l'opera, l'immaginazione del carattere di Boris, gesti scenici rigorosamente controllati. Insomma attraverso un dominio sovrano degli impulsi che portò il celebre basso a dire: «Ci sono due aljapin sulla scena: uno recita; l'altro sorveglia».

Basta scorrere l'elenco degli interpreti di Boris alla Scala, aljapin e Tancredi Pasero, Nicola Rossi-Lemeni e Boris Christoff, Ivan Petrov con il Bolshoi in trasferta a Milano, per capire le parole del non dimenticato basso bulgaro Nicolaj Ghiaurov: «Boris è come Otello per il tenore, è il ruolo più affascinante e più difficile».

Ghiaurov ha cantato alla Scala prima il ruolo di Varlaam nel 1960, destrando la furibonda gelosia del suo compatriota, il grande Boris Christoff (che amava fare tutti e tre i ruoli principali, Boris, Pimen e Varlaam), poi aveva affrontato con grande successo quello di Boris in lingua italiana nel 1967 e 1973, per poi cantare la "cosiddetta versione originale" in russo nell'allestimento del 1979 firmato da Jurij Ljubimov e David Borov. Ghiaurov sottolineava come l'unicità della parte risiedesse nella solitudine del personaggio. «Boris è un uomo sofferente, non solo per i rimorsi di avere ucciso lo zarevitch bambino Dimitri (figlio di Ivan il Terribile), ma anche per l'impossibilità di vedere compiuta la politica che ha sostenuto nei suoi sei anni di regno: ha aperto le frontiere della Russia, ha dato lavoro e pane al popolo, ma è circondato dall'indifferenza. Soffre una doppia solitudine, quella che lo isola nei suoi rimorsi e quella che lo getta lontano da un popolo che non lo ama».

La tessitura di Boris è quella di un baritono grave o di un basso "cantante", capace di emettere note profonde imperiose e meditative, ma anche di esprimere inquietudini, preghiere, lamenti, strazi che si agitano sotto la corazza del potere. Non è una parte lunga (canterà una mezz' ora di musica) «ma esige una terribile concentrazione: nel Prologo (scena dell'incoronazione a zar), per esempio, Boris è solo in mezzo al popolo; circondato dalla folla, si sente allo stesso tempo nell'estrema solitudine. Le prime parole che canta (Ho l'anima in lutto) devono essere estratte dalla più profonda concentrazione, si devono sentire i presentimenti che ronzano intorno e bisogna farli capire in due minuti!».



Superate le difficoltà espressive e il mantenimento di una linea di canto che oscilla fra "bel canto" e un recitativo di grande peso specifico drammatico (una parola gonfia di musica prima ancora che il musicista la intoni) arriva la grande scena della morte. A quel punto ci si sente spossati: «Questa scena mi porta sempre sulle soglie dell'abisso. L'abisso di Boris: quell'abbandono in cui mi lascia e che si rinnova ogni volta che desidero cantarlo».

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