Valter Malosti e Davide Livermore sono affabulatori dagli ampi orizzonti

Fabrizio Sinisi è solido e originale. Angela Dematté è radicata sul territorio

Valter Malosti e Davide Livermore sono affabulatori dagli ampi orizzonti

È un momento di trasformazione per il teatro. Alla ricerca del nuovo Stefano Massini, che con Lehman Trilogy ha ridato alla drammaturgia italiana rilevanza internazionale (va in scena dal 6 marzo al Teatro della Pergola di Firenze con Bunker Kiev: performance per trenta spettatori alla volta). Alla ricerca della visibilità dopo l'ombra del Covid. Alla ricerca della narrazione, dopo anni in cui la performance dell'attore sovrasta ogni comprensione. Mai come oggi si assiste alla messa in scena della letteratura, da Calvino a La Capria, e tra i drammaturghi solo segnalazioni: Fabrizio Sinisi, solido, originale, non fatto per l'instant-theater e che perciò avrebbe bisogno di più spazio e tempo; Angela Dematté, forti radici nel territorio trentino in cui è nata e quindi internazionale a modo suo; Mario Perrotta con il peccato capitale d'esser monografia di se stesso. Non abbiamo Yasmina Reza o Kae Tempest, al momento, in Italia, è certo. Tra i nomi fuori dal flusso collettivo, pur premiati dalla critica ufficiale, Ubu compresi, ci sono almeno tre registi da citare. Valter Malosti, prima alla direzione del Teatro Piemonte Europa e poi nel 2021 nominato per ERT, il Teatro Nazionale Emilia Romagna: ha una cifra che lo porta a presentare un cartellone con 100 titoli in 11 teatri in 4 città e questa settimana fa debuttare il Lazarus di David Bowie con Manuel Agnelli (ora al Bonci a Cesena, poi in tournée). Una cifra che gli ha fatto sfornare lo Shakespeare sensuale e violento dei Sonetti, un Goldoni illuminato dalle ombre della morte con I due gemelli veneziani e poi due tra le migliori edizioni di Testori mai portate in scena, Cleopatràs con Anna Della Rosa e La Monaca di Monza con Federica Fracassi. C'è invece una voglia di kolossal, benissimo soddisfatta, in Davide Livermore, che da quando dirige il Teatro Nazionale di Genova ha trovato la giusta dimensione per unire a livello di spazi scenici e registici la verticalità del teatro tragico alla vertigine della lirica: lo dimostrano le sue Elena di Euripide, Maria Stuarda di Schiller e ora la Maratona Orestea che dopo Siracusa approda a Genova il 14 marzo. Più sommesso e insieme prepotente, il modo teatrale di Roberto Latini, che aveva un contenitore suo, Fortebraccio Teatro, perduto per alterne fortune e ora si appella a chi sa riconoscere la sua abilità magistrale in giro per l'Italia: ne sono nati, tra gli altri, due adattamenti de I giganti della montagna e del Cantico dei Cantici irripetibili per peso emotivo e rigore stilistico e un lavoro di ricerca sul Teatro comico di Goldoni, poi ripetuto per Pinocchio, che non ha eguali nel panorama italiano.

Rimangono altri nomi in portafoglio, almeno citati perché non si smetta di tenerne d'occhio la crescita: il prolifico, onnivoro e talvolta geniale Carmelo Rifici, sebbene abbia dovuto espatriare in Svizzera perché gli si desse una direzione artistica; la meteora Alessandro Serra, dal quale dopo il successo mondiale di Macbettu aspettiamo riprenda quel cammino di assoluta perfezione; Antonio Latella, certo non giovane promessa, ma astro che consegna ancora molte emozioni, anche se dopo la direzione di Biennale Teatro fatica a riprendere un percorso alternativo e indomito quanto il precedente.

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