Perché bisogna temere (e perché no) l'intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale è già tra noi e ci semplifica la vita, averne paura è l’atteggiamento più condizionante che possiamo avere

Perché bisogna temere (e perché no) l'intelligenza artificiale

Molto di ciò che riguarda l’Intelligenza artificiale (AI) è una previsione e, in quanto tale, cede al fascino di ciò che attrae ma è sbagliato. Nel 2013 l’Università di Oxford ha immaginato che, nel decennio a seguire, l’AI e l’automazione in genere, avrebbero falcidiato il 45% dei posti di lavoro negli Stati Uniti ma, a ben vedere, non c’è ancora una tecnologia in grado di renderlo esatto. Dove sono i robot che mantengono i parchi pubblici al posto dell’uomo? Dove sono gli avvocati, i giudici e i medici sostituiti dall’AI? E, ancora prima di cercare ciò che non c’è, ci sono dei prototipi in grado di sostituire gli addetti alla manutenzione pubblica, i giudici e i medici?

Si potrebbe obiettare che, oggi, l’AI è in grado di fare diagnosi mediche meglio dell’uomo. Ed è vero ma il medico c’è ancora. Watson Health di IBM, un sistema usato come supporto alla diagnosi medica, legge decine di milioni di analisi mediche, diagnosi, documenti scientifici ed è in grado di correlarli tra loro per giungere a una diagnosi. Ma il medico, ovvero l’essere umano, è l’unico a conoscere la storia clinica del paziente, così come ne conosce quella non clinica (sociale o famigliare) che possono avere un peso specifico sulle sue condizioni di salute.

Fino a qui, ovvero entrando nei fatti reali e misurabili, i robot e gli automatismi non ci stanno facendo paura. Per quanto riguarda il futuro, anche se è complesso fare previsioni precise, appare chiaro che l’AI cancellerà posti di lavoro tanto quanto è chiaro che ne creerà degli altri. I robot, gli automatismi, il software e le filiere in cui si posizionano devono essere studiati, ingegnerizzati, prodotti, commercializzati e mantenuti. Questo è il vero problema, come vedremo parlando della società digitale.

Il problema sociale

Le previsioni, soprattutto quelle sul lungo periodo, sono certamente oneste nelle loro formulazioni ma sbagliate e, per quanto in buona fede, un errore rimane tale.

Eppure, osservando il nostro passato recente, abbiamo elementi sufficienti per capire a cosa stiamo andando in contro, stupirci delle politiche lasche che stiamo attuando e pretendere che vengano formulate leggi e regole. Ma andiamo con ordine.

Un’importante invenzione dell’uomo è stata la stampa a caratteri mobili di Johannes Gutenberg: con la relativa facilità con cui venivano dati alle stampe, i libri non erano più appannaggio di un pubblico ristretto. Nonostante ciò, non è si è sviluppata una società di soli letterati. Oggi, per rimanere in tema di editoria, siamo davanti a un nuovo capitolo del medesimo libro.

La società digitale e l'intelligenza artificiale

Ciò che deve destare preoccupazioni (ma non paura) è la risposta tardiva con cui stiamo affrontando la società digitale. Così come la stampa di Gutenberg non ha sortito una società di eruditi, non possiamo ragionevolmente attenderci che oggi nasca all’improvviso una società di individui pronti al digitale. Non è il futuro a fare paura, è il periodo di transizione necessario alla società per adeguarsi che deve imporci di fare scelte giuste e coraggiose oggi. Da questo punto di vista stiamo facendo poco e ciò ricadrà inesorabilmente sulle spalle di tutta la società.

C’è un precedente storico che ci rimanda nel Regno Unito alla fine del 1700, quando Thomas Gilbert ha presentato un disegno di legge per sussidiare chi, con la rivoluzione industriale, avesse perso il lavoro. E, benché occorra spostarsi nel tempo e nello spazio per apprendere la lezione, va sottolineato che il disegno di legge fu modificato e, al posto di assicurare una rendita ai disoccupati, questa fu garantita per integrare il reddito dei lavoratori in base al numero dei componenti delle rispettive famiglie.

La lezione che non stiamo imparando è che la sovvenzione pubblica, in questa fase di transizione, sembra essere l’unica via percorribile per attutire i bruschi colpi a cui va incontro chi, di cultura digitale, non ne ha neppure un po’ e quindi rischia di rimanere ai margini sia della vita professionale ma anche di quella sociale, riservandosi un posto nella storia degli esclusi del XXI secolo. Questo deve fare paura.

Le soluzioni

Le soluzioni sono diverse, ma tutte partono dall’assunto secondo il quale l’intelligenza che causa un problema non può essere impiegata per risolverlo.

È necessario un sistema per attutire il costo che gli esclusi dalla società riversano sulla società stessa. Chi rimane ai margini rappresenta comunque un costo sociale, che gli si dia un nome e che se ne identifichi con chiarezza la cifra spesa non rende il fenomeno più o meno bello.

Un sistema assistenziale deve esigere la disponibilità di chi lo percepisce ad accettare gli impieghi che gli vengono proposti ma, in attesa di un impiego, i percettori dovrebbero partecipare ad apposite formazioni al digitale, eventualità questa che creerebbe posti di lavoro.

Non sembra essere una pretesa impossibile da attuare. Occorrono però autorità meno “vecchie” non tanto dal punto di vista anagrafico ma da quello culturale. Non è lineare e neppure intellettualmente onesto attendersi che parlamentari e vertici delle istituzioni non siano più che carrozzati in materia digitale.

Inchiodati al passato

Una delle grandi differenze che caratterizzano la rivoluzione industriale e ciò che sta accadendo oggi con la quarta rivoluzione industriale, quella dell’AI, della robotica, del web e degli automatismi è che, nella seconda metà del 1700 in Inghilterra, nessuno si è fatto domande. Il lavoro stava cambiando e i piccoli artigiani scomparivano a causa della potenza produttiva delle fabbriche.

Oggi, al contrario, di domande ne facciamo molte. Ci poniamo quesiti etici sui diritti digitali delle persone, sui loro diritti di inclusione e sui loro diritti al lavoro.

Ma non troviamo risposte e questo ci fa apparire più evoluti, colti e centrati sul presente quando, in realtà, questo mutismo istituzionale, ci riporta indietro nel tempo di 250 anni. Il tempo delle domande può non finire ed è un bene, il fatto che di risposte non ce ne siano è probabilmente un male.

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