Tempo di saldi anche per la legge

Tre ergastoli per l’omicidio di Massimo D’Antona, la legge non fa sconti per i delitti politici commessi in previsione di una rivoluzione che non c’è e non ci sarà. La legge è legge, anche se in effetti la parola «ergastolo» non ha più il significato che aveva qualche decennio fa, quando sul fascicolo degli ergastolani vergavano una frase terribile: «Fine pena, mai». Mai dire mai, adesso le pene sono come certi capi di cotone che si restringono per un lavaggio errato, ti ritrovi i condannati liberi e semiliberi quando meno te l’aspetti.
E tuttavia la parola «ergastolo» conserva una pesantezza esistenziale legata alla sua etimologia, al lavoro forzato cui la modernità ha aggiunto l’eternità della pena. Ad metalla, a scavare nelle miniere, finché morte non sopraggiunga.
La morte, la vita. Massimo D’Antona, uomo senza colpe e di sicuri meriti, è stato assassinato perché dei giovani incupiti in una visione manichea e illiberale del mondo, pensavano – e pensano – che il suo sangue avrebbe favorito, qui, in Italia, il successo che la loro ideologia non aveva avuto altrove. Il comunismo, quella gran trovata che ha impoverito e assassinato mezzo mondo.
Ebbene, non piangeremo per quei tre ergastoli – sostanzialmente finti – perché dovremo risucchiare le lacrime quando vedremo gli ergastolani chiamati nei teatri, o nelle università o nelle biblioteche delle università a gigioneggiare, a dare l’interpretazione di un mondo che non hanno capito.
Tre ergastoli, la legge non fa sconti. O li fa? Forse che sì, forse che no. Federica Saraceni, ad esempio, era stata rinviata a giudizio con l’accusa di avere avuto parte, di aver concorso all’omicidio di D’Antona. Per lei il pubblico ministero ha chiesto la condanna a 21 anni, ma la corte d’assise l’ha riconosciuta colpevole «soltanto» di associazione eversiva e di partecipazione a banda armata. Soltanto. E vi pare poco?
Si può «partecipare» a una «banda armata» e rispondere soltanto frazionalmente, marginalmente delle sue infamie politicamente motivate? Di regola non si potrebbe. L’adesione a un progetto terroristico – quello delle Brigate rosse, vecchie e nuove, indubbiamente lo è – comporta la condivisione delle responsabilità, anche se non si è premuto nessun grilletto.
La «partecipazione a banda armata» comporta una condivisione del progetto sovversivo che appare certamente più intensa e penalmente rilevante di quella che si contesta in un altro reato, quello di «partecipazione esterna ad associazione mafiosa». Si può essere esterni alla mafia – sia pure in un contesto di illecita collaborazione – e pagar molto e si può essere organici al terrorismo rosso e, tuttavia, pagar poco. È giusto?
Probabilmente non lo è. E sia chiaro che a noi non piacciono né i mafiosi né i terroristi, campioni di un anti-Stato che temiamo. Ma ci inquieta il sospetto che certi imputati facciano valere il loro albero genealogico politico: se si viene dalla sinistra giusta, non si diventa colpevoli, al massimo si entra nel club dei «compagni che hanno sbagliato». Ma poco, soltanto un tantino.


Non ci piacciono le forche e non amiamo le condanne esemplari, che normalmente dovrebbero simulare la forza che la sovranità statuale spesso non ha.
Umanamente possiamo gioire con Federica Saraceni per la sua buona ventura giudiziaria. Per la giustizia è un altro discorso, c’è poco da gioire.

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