Ogni volta che la tragedia va in scena in un campo di calcio siamo colti, quasi tutti, da un’angosciosa sensazione di disperata sfiducia nell’animosità inconsulta, intollerabile di certi «tifosi». Una società che esprime solidarietà e aiuto a chiunque soffra, ai bambini malarici, ai denutriti e ai profughi, riesce tuttavia a manifestare una violenza belluina, arcaica nelle parentesi di agonismo che dovrebbero riportarci a uno spirito di competizione pulita e rigeneratrice. Si dirà che sono soltanto frange marginali di ultrà a trasformare le partite in giochi talvolta mortali, nei quali il tifo, come si ostinano a chiamarlo gli ottimisti, si muta in violenza praticata col preciso intento di colpire, di sopraffare, di annullare i sostenitori degli avversari. Ma gli ultrà in questione hanno la possibilità di organizzarsi, di pianificare gli attacchi, di portare sugli spalti e in campo strumenti di morte sicura. Un super-petardo come quello lanciato a Catania non poteva essere stato acquistato o confezionato soltanto per far rumore, era stato preparato per colpire con violenza, per imporre una prepotenza che non può essere tollerata.
Pensiamo a tutti i poliziotti che in occasione delle partite faticano e si sacrificano per assicurarci la regolarità possibile nel gioco più bello del mondo. Uomini e ragazzi che si alzano presto, che si bardano di scudi e manganelli e vegliano per ore sugli umori incivili di gente che cerca nello stadio chissà quale rivincita alle proprie frustrazioni. È tollerabile che uno di questi servitori dello Stato e dei cittadini sia morto perché un barbaro redivivo ha scagliato una rudimentale bomba? Chiamiamo le cose col loro nome: era una bomba e l’esito tragico del lancio lo conferma.
Subito dopo l’omicidio è giunta la decisione di sospendere i campionati di calcio per il fine settimana. In questo Paese abbiamo il discutibile gusto delle decisioni vagamente tardive quanto inutilmente drammatiche. Il problema della violenza negli stadi è antico, così come è radicata la confusione fra passione sportiva e l’istinto incivile a distruggere, colpire, ferire. Negli stadi si libera una corrente di violenza che è propria del vivere e del convivere, un’insopprimibile soglia di proto-anarchismo violento che, se non ci fossero le partite, potrebbe manifestarsi anche alle feste dell’uva. Il dramma è costituito anche dal fatto che questa energia malsana venga strumentalizzata e sfruttata da chi sulla passione sportiva specula e s’ingrassa.
La decisione di sospendere i campionati è ad ogni modo scontata e insufficiente. Pochi giorni fa il dirigente di una squadra della categoria dilettanti era stato assassinato come un cane, a calci e a pugni, in Calabria, da un gruppo di giocatori e tifosi della squadra avversaria. I dilettanti non fanno notizia? Quella barbara uccisione non avrebbe dovuto far scattare una risposta forte, un messaggio fermo e inequivocabile? Soltanto la serie A deve rimanere nell’ambito della legalità possibile?
La verità è che paghiamo oggi anche il prezzo amaro di antichi lassismi. Abbiamo tollerato, fra sociologismi e fumisterie, che i campi di calcio fossero considerati spazi extraterritoriali nei quali le leggi fossero sospese, come se le esplosioni della domenica dovessero funzionare come valvola di sfogo per la marginale frazione malata e violenta del Paese.
Un week-end senza calcio: può bastare? Possiamo sentirci a posto con la coscienza per una simile misura? Forse bisognerà ripensare tutti i meccanismi della proiezione pubblica dello sport più popolare. Con mano ferma, con divieti anche più severi, pure per indurre chi ama veramente lo sport a isolare i sedicenti tifosi, violenti sempre e comunque.
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