Per la torcia ultima tappa nel passato

Il percorso della staffetta è un omaggio alla vecchia Cina ma svela le fragilità della nuova. Dal viaggio sulla Grande Muraglia fino alla visita alle grotte dell'"homo pekinensis"

Per la torcia ultima tappa nel passato

Pechino - «Per prima cosa, appena arrivato qui, sono andato a far visita all'Uomo di Pechino» scriveva Curzio Malaparte cinquant'anni fa in quello che fu il suo ultimo reportage e il suo ultimo libro, Io in Russia e in Cina. Aveva un tumore ai polmoni, i pietosi medici cinesi gli fecero credere fosse tubercolosi e lui fece finta di credere ai pietosi medici cinesi. Lo curarono quel tanto che bastava a rimetterlo in piedi e a fargli prendere l'aereo per tornare in Italia a morire. La foto scattata all'aeroporto di Ciampino mentre scende dalla scaletta dell'aereo, una mascherina di garza sul volto, è l'icona guascona e malinconica di una vita giunta al capolinea.

Che cosa fosse l'Uomo di Pechino il lettore non era tenuto a saperlo e per molte pagine lo scrittore pratese si guardava bene dal dirglielo, più interessato a colorire il racconto di annotazioni sulla pazienza e la bontà dei cinesi, sulla bellezza del paesaggio... Solo alla fine si scopriva che l'Uomo di Pechino era preistorico, era vissuto in Cina all'incirca mezzo milione di anni fa, conosceva già il fuoco, sapeva cucire.

A far visita all'Uomo di Pechino ci sono andato anch'io, per due motivi. Il primo perché di Malaparte si può solo calpestare umilmente le orme. Il secondo in quanto è da qui che oggi la Torcia olimpica spiccherà il salto definitivo verso il Bird Nest, dove darà il via a queste Olimpiadi del 2008. Come già la Città Proibita, il Tempio del Cielo, la Grande Muraglia, anche il sito dell'Uomo di Pechino fa parte dei monumenti ritenuti dall'Unesco Patrimonio dell'Umanità, ulteriore elemento a supporto di una grandeur che la Cina tiene a sottolineare, il passato che si unisce al presente, il presente che attinge la propria forza da ciò che è stato. Quello che noi definiamo futuro, i cinesi lo chiamano hou chieng, il davanti-dietro.

L'Uomo di Pechino, Sinanthropus Pekinensis è il suo nome scientifico, «abitava» a Zhoukoudian, 50 chilometri dalla capitale. Mezzo secolo fa questa distanza era un viaggio, l'uscire dalla città e lo sprofondare nella campagna, la Cina rurale ancora in attesa del «grande balzo» industriale con il quale Mao si proponeva di raggiungere in un breve arco di tempo prima l'Inghilterra, poi gli Stati Uniti. Allora sappiamo come andò a finire, la più grande carestia del ’900. Oggi quelle velleità non sono più tali, eppure nel gigantismo cinese ci sono molte cose che stridono, come cercheremo di vedere più avanti. Per l'intanto quei 50 chilometri di campagna ora sono chilometri di Pechino e dove la periferia finisce c'è spazio solo per autostrade, fabbriche, condomini... Il panorama naturale non è desolante, ma «artificiale»: migliaia di alberi piantati ex novo, aiuole, cespugli.

A Zhoukoudian ci sono una ventina di caverne, la più famosa delle quali, quella dell'Uomo scimmia, fu scoperta nel 1921: vennero ritrovati fossili che appartenevano ad almeno 40 individui preistorici, strumenti in pietra, reperti di animali. Dei vari crani recuperati durante gli scavi, solo uno riuscì a uscire indenne dai disastri della Seconda guerra mondiale e oggi è all'Accademia delle Scienze di Pechino, dove è catalogato tutto il materiale relativo. Qui, nel piccolo museo, ci sono solo delle copie, ma l'insieme rimane suggestivo, per chi ancora conserva un minimo d'immaginazione. Tutto in queste Olimpiadi è stato pensato in un'ottica di magnificenza. L'aeroporto dove arrivi è un gioiello architettonico, lo Stadio Olimpico è da molti ritenuto il più bello mai realizzato, è stupefacente la Piscina olimpionica, lo sviluppo in verticale dell'intera città è impressionante...

Eppure, basta guardarsi intorno per vedere gente che gioca a carte seduta per la strada, la cattiva qualità delle auto, la povertà dei materiali di cui è fatto sia il décor di un ristorante di media categoria, sia l'abbigliamento di un medio cittadino, la cui sciatteria viene accentuata dall'abitudine di tenere la maglietta arrotolata sopra l'ombelico per far «respirare» la pancia... Secondo i dati del Fondo monetario Internazionale, il reddito americano procapite vale dieci volte quello cinese e quello italiano sei volte di più. Identico divario è per il Pil, anch'esso procapite: 45mila dollari quello Usa, 30mila circa il nostro, 5mila quello cinese. Come ha scritto la rivista Limes, «vista da Occidente questa Cina è al più una “superpotenza povera”.
Dopodomani sarà forse ricca, condizione necessaria ma non sufficiente per aspirare al rango di supergrande. Per questo serve il “marchio giallo”. Il soft power fabbricato in casa e riconosciuto per tale nel mondo che conta».

Sul «marchio giallo» i cinesi non hanno ancora le idee chiare. È un problema che ha a che fare con l'ossessione-complesso dell'Occidente che per tutto il Novecento l'ha attraversata e ancora non l'ha abbandonata. Lungo l'arco del secolo scorso, l'idea dei bainian guochi, dei «cento anni di umiliazione» cominciati con la Guerra dell'oppio di metà Ottocento, è stato uno degli elementi su cui si è andata a costruire l'identità nazionale. Questo ha provocato anche una schizofrenia identitaria riguardo la propria cultura, la propria storia: i modernizzatori del primo Novecento se la presero con il confucianesimo, ritenuto debole rispetto alla tecnica dell'Occidente, i comunisti con il nazionalismo di Chiang Kai-Shek, ritenuto invece troppo acquiescente, il maoismo con la tradizione in quanto tale, Deng con la liquidazione di una rivoluzione autoctona e protezionista. Odio e ammirazione, insomma.

Per dirla con un'immagine di Lou Xun, il suo scrittore più importante del primo Novecento: «Non abbiamo mai avuto una via di mezzo nel guardare agli stranieri. O li consideriamo dèi o bestie selvagge». Da domani cominciano le gare, ma i cinesi debbono ancora mettersi d'accordo su se stessi.

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