Intanto bisognerebbe capire con quale criterio ha scelto le canzoni. Bruce Springsteen pubblica oggi Only the strong survive, che è il suo ventunesimo album e fin qui niente di particolare. Ma è anche il suo primo interamente dedicato interamente a classici e meno classici del soul, cioè a un pezzo della sua storia, cioè a un pezzo degli States che lui ha già raccontato in ogni modo girandone la provincia, le metropoli e le coste grazie al suo rock con il gomito fuori dal finestrino. Chissà se li ha scelti perché sono quelli che ascoltava la mamma alla radio mentre da bambino si vestiva per andare a scuola. Oppure se erano quelli che era praticamente obbligato a suonare quando, con i The Rougues o i più inglesofili The Castiles, veniva chiamato alle feste studentesche che pretendevano «tons of Mustang Sally e Soul man». Come lui ha raccontato ieri a Massimo Cotto su Virgin Radio, «ho studiato questi dischi in tutti i modi quando ero un teenager e li ho suonati spesso».
Forse per questo Only the strong survive non suona esattamente come un disco di cover, suona più che altro come un nuovo disco di Bruce Springsteen perché il suo rock è sempre stato vicino ai cromosomi del soul anche quando camminava a bordo di due chitarre e una batteria da far tremare i polsi. Perciò brani come Only the strong survive, cantata pure da Elvis, o The song ain’t gonna shine anymore, lanciato per la prima volta da Frankie Valli nel 1965, non suonano così inediti in un disco di Bruce Springsteen, che è il cantastorie più tradizionalmente rock dell’America ed è cresciuto a pane, rock’n’roll e soul, che è poi la declinazione di jazz e gospel con un linguaggio pop.
Negli anni Sessanta, quando Springsteen suonava alle feste di classe, il soul era la Motown, era la Stax, erano Aretha Frankin e Ray Charles e i Temptations santi subito. Ieri sera a Virgin ha spiegato che sì, pensa ancora che la canzone sia «tre minuti che possono cambiarti la vita». Ma di sicuro negli anni Sessanta tre minuti di soul potevano davvero cambiarti la vita negli States, specialmente quando si andava a ballare e i bianchi erano divisi dai neri e sui pullman i posti per gli uni erano qui e per gli altri di là. Il soul era un collante sociale prima ancora che i Beatles arrivassero all’Ed Sullivan Show, e prima che, negli anni Settanta, le folate di Rolling Stones e Aerosmith attraversassero gli stadi spargendo anche il soul più sporco e sanguigno che però era meticcio e mescolava le sensibilità ben prima del rap. Insomma, nel canzoniere di Springsteen entra un repertorio che è ancora più suo di quello di Pete Seeger celebrato in We shall overcome: the Seeger Sessions del 2006.
Qui, nei quindici brani di Only the strong survive, c’è il Bruce Springsteen bambino con i calzoncini corti nella cucina di mamma, quello imbrillantinato sul palco al ballo dei Vigili del Fuoco, quello che è arrivato nella propria Promiseland del rock portandosi dietro tutti i cori, i ritonelli e i vocalizzi che la Motown di Berry Gordy aveva trasformato in «national anthem», in inno nazionale per due generazioni. Da Marvin Gaye ai Commodores. Da Diana Ross a Smokey Robinson.
Il Boss born the Usa racconta con questi brani i suoi Soul days, i giorni del soul, e lo fa dividendo quel brano con Sam Moore che con David Prater formò negli anni Sessanta il duo soul più famoso di sempre: Sam & Dave (Sam Moore torna anche in I forgot to be you lover). Insomma per dirla tutta, questo disco serve più a Springsteen che al soul.
Lui fa i conti con un pezzo del proprio passato, ed è sostanzialmente un glorioso ultrasettantenne che torna a sentirsi per un’oretta come quand’era un pivellino. Invece il soul poteva farne a meno ma di certo non si offende: meglio essere omaggiato da Springsteen armato di nostalgia che saccheggiato da qualche rapper armato solo della la carta platino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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