La transizione energetica non decolla, i prezzi delle materie prime tradizionali e delle fonti fossili sono ai massimi e anche i permessi di inquinamento nel Vecchio Continente stanno registrando un prezzo senza precedenti.
L'8 febbraio 2022 il prezzo dell'Emission Trading Scheme (Ets) dell'Unione Europea si approssimava ai 97 dollari per tonnellata di emissione, un valore del 153% superiore rispetto a un anno prima. Il valore supera di oltre sei volte i dati di quattro anni fa. Tale rally rischia di alimentare lo tsunami energetico ed inflativo e di tagliare le gambe al piano di sviluppo della transizione energetica, inficiando notevolmente la possibilità di procedere nelle tabelle di marcia previste sul piano Fit for 55, sullo sviluppo economico-industriale di strategie per la transizione e sulla regolazione dei mercati energetici del futuro.
L'Unione Europea prevede un calo tra il 41 e il 48% delle emissioni con base 1990 per il 2030 e tra il 55 e il 62% entro il 2050, ma per ora non si vede grande differenza rispetto al passato per il collo di bottiglia in cui le politiche energetiche si sono infilate. Il gas costa come non mai, il petrolio sfiora i 100 dollari al barile, la bolletta elettrica delle imprese e delle famiglie europee è al massimo, i lockdown produttivi sono sempre più una realtà e sempre meno un'ipotesi teorica. E questo crea situazioni imbarazzanti: i produttori delle aziende energivore si trovano tra i due fuochi del costo crescente delle fonti tradizionali e delle necessità di investimento che la transizione richiede; i governi devono conciliare strategie industriali volte a ricercare efficienza e fonti a minore impatto a conti salatissimi per frenare la crisi energetica; inquinare costa sempre di più ma questo non libera risorse per operazioni di più ampio respiro.
Da quando in primavera l’Unione Europea ha iniziato ad annunciare le strategie che, mediando tra pragmatismo e ideologia, hanno avviato il Green New Deal, come i “dazi verdi” proposti per colpire le nazioni che in questa fase storica hanno standard ambientali più labili e il piano Fit for 55 con annesse strategie di fuoriuscita dalle energie fossili, i carbon permits hanno iniziato a decollare nelle quotazioni. A maggio hanno sfondato per la prima volta il costo di 50 euro per tonnellata, a inizio settembre hanno toccato i 60. Già allora la situazione sembrava decisamente insostenibile, ma poi è degenerata: il 30 novembre è stata doppiata quota 70, il 13 gennaio il valore ha superato gli 80 euro per tonnellata. Infine, il 4 novembre la nuova salita sopra i 90 dollari a tonnellata: ciò può portare a un nuovo record il risultato stabilito nel 2021, che ha visto un livello senza precedenti della spesa sostenuta dalle aziende energivore dell'Ue per commerciare i permessi ad inquinare nel quadro del mercato comune delle emissioni. Refinitiv ne ha stimato il valore in 683 miliardi di euro, il 90% del totale globale, nel 2021, in un contesto che ha visto il valore globale salire a 764 miliardi (+164% su base annua).
Dalla sidrerurgia alla logistica, dall'energia alla manifattura, dallo shipping al trasporto aereo i settori colpiti dal volo degli Ets sono innumerevoli, e questo non fa altro che alimentare la spirale inflativa su cui la ripresa economica occidentale può minacciare di avvitarsi.
La transizione energetica rischia di essere travolta e colpita duramente da questa tematica scottante, che segnala un potenziale shock: la folle corsa del mercato Ets rende nel breve periodo più costoso per ogni operatore economico inquinare, appesantendo alle imprese il fardello dell’acquisto dei permessi, sottraendo di conseguenza risorse agli investimenti in transizione e sviluppo sistemico di nuove tecnologie, reti, forme di alimentazione, rallentando in sostanza il percorso verso la decarbonizzazione. Se non fermata alla base, questa dinamica accelerata da una retorica ambientalista poco concentrata al lato pragmatico può risultare un macigno insostenibile per le economie avanzate dell'Europa.
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