Nel Novecento, sostiene Egidio Ivetic nel suo Il grande racconto del Mediterraneo (il Mulino, pagg. 390, euro 48) i cicli storci che riguardano questo mare ebbero un andamento diverso rispetto «alla canonica prospettiva occidentale» del «secolo breve», non oltre il 1989 del fatidico crollo del Muro di Berlino e inizio in anticipo di quello successivo: tracollo dell'impero sovietico, guerra in Iraq, guerra in Iugoslavia... Nel Mediterraneo, infatti, il Novecento comincia con l'invasione italiana della Tripolitania nel 1911 e la prima guerra balcanica subito dopo: ambedue avviano il tramonto dell'impero ottomano, che della storia mediterranea era stato non solo un grande protagonista, ma anche «l'unico sopravvissuto, con tutti i suoi problemi e le sue fragilità, di un mondo che risaliva al Quattrocento».
Dieci anni dopo, con la fine della seconda guerra greco-turca e la disfatta del sogno della Grande Grecia, si assiste a quello che rimane «il più drammatico ricambio demografico della storia del Mediterraneo moderno»: più di un milione di greci abbandonano l'Asia minore e la Tracia per distribuirsi fra Atene, Salonicco e la Macedonia, quasi mezzo milione di musulmani fanno il cammino inverso. In una manciata d'anni, dunque, scompaiono le antiche coordinate e le relative potenze geopolitiche e nuovi attori ne prendono il posto: Gran Bretagna e Francia, innanzitutto, con la prima che trasforma Cipro in colonia, l'Egitto in regno controllato dai suoi alti commissari, la Palestina sotto il suo diretto mandato, tutte realtà che vanno ad aggiungersi al possesso di Malta e di Gibilterra. Quanto alla seconda, il mandato sulla Siria, divisa artificialmente fra Grande Libano, Stato di Aleppo e Stato di Damasco, va a sommarsi al precedente protettorato sul Marocco, all'Algeria intesa come Francia «d'oltremare», alla Tunisia come dominio. In sostanza, la stessa idea del Mediterraneo, scrive Ivetic, «diventò quella di una grande soglia coloniale, che apriva all'Asia e all'Africa, e, tramite il canale di Suez, all'Oceano Indiano. Le vie marittime erano gli assi su cui si realizzava il potere imperiale di Londra e Parigi».
E l'Italia? Padrona, «almeno sul piano militare», dell'Adriatico, è allora che come nazione uscita vittoriosa dalla Grande guerra, riscopre «la dimensione mediterranea, una dimensione non solo geografica bensì culturale, per certi versi esistenziale». È come se, nota ancora Ivetic, «per la prima volta avesse compreso di trovarsi al centro del Mediterraneo e che tale collocazione imponeva un approccio su larga scala».
I primi a rendersene conto non sono i politici, ma gli intellettuali. Ardengo Soffici come Eugenio Montale, Giorgio De Chirico e suo fratello Alberto Savinio: i cieli, i pomeriggi estivi, il mito rivissuto e rivificato, un atteggiamento estetico mediterraneo diverso e contrapposto all'Europa occidentale e nordica. Il fascismo verrà a ruota con la vocazione mediterranea parte integrante della retorica di regime e le suggestioni monumentali a mescolare romanità e modernità, il passato classico e il futuro del Mediterraneo inteso come Mare Nostrum...
Oltralpe i francesi si muovono sulla stessa lunghezza d'onda, anche se ci mettono più tempo. È un Mediterraneo, come dire, di Ponente, imperniato sull'asse Nizza-Marsiglia-Algeri, gonfio di suggestioni provenzali, romanze, in cui la sponda Nord, quella europea, è preminente rispetto a quella Sud, africana, marginale, se non considerata un semplice prolungamento «metropolitano», visto che l'Algeria è considerata né più né meno che una costola della Francia, più barbara, se si vuole... È il cosiddetto «pensiero meridiano» caro a scrittori come Albert Camus, che vedono nella natura, come nella cultura, l'elemento fondante, un Mediterraneo di mare e di sole, di cieli azzurri, panteista e che più che a Roma si rifà alla Grecia del Limite e a quella della Nemesi, la maledizione che si scaglia contro chi vuole andare oltre, contro l'hybris, la sfrenata ambizione di dominare, di passare il segno...
Anche la Turchia nata sulle ceneri dell'impero ottomano cerca a suo modo un nuovo ancoraggio nel Mediterraneo. Lo fa contestando a quest'ultimo «l'orientalizzazione e l'islamizzazione di quel mare», rispetto al passato hittita, troiano, persino etrusco: «anatolismo» si intitola questa corrente artistico-letteraria, di pari passo con quanto sul versante più strettamente politico farà Ataturk, spazzando via il fez, il velo e il vecchio alfabeto.
In questi riposizionamenti e ripensamenti, nota Ivetic, l'unica grande assente è la Spagna, «nonostante la sua sezione di Mediterraneo fosse notevole e si stendesse tra Barcellona, Valencia, le Baleari, l'Andalusia e il Rif marocchino». Il fatto è che in quegli anni Venti del Novecento la Spagna è ancora immersa nel suo sogno imperiale definitivamente andato in fumo all'inizio del secolo, la perdita di Cuba e delle Filippine, e con esso il subentrare degli Stati Uniti e del loro imperialismo. Ciò provoca in patria una serie di sconquassi istituzionali, monarchia-dittatura-repubblica destinati a cristallizzarsi nella guerra civile degli anni Trenta.
Costruito in ordine cronologico e inserendo in esso substrati archeologici e narrazioni mitiche, paesaggi, e quindi geografie, ma anche commerci, e quindi scambi e manufatti, Il grande racconto del Mediterraneo evita intelligentemente di mettersi in competizione con i lavori canonici di Fernand Braudel e con quel classico che è il Breviario mediterraneo compilato da Predrag Matvejevic.
«Nella nostra epoca - conclude Ivetic - dove si decostruisce concettualmente tutto, dove l'Occidente non è più un'idea forte, dove l'Europa è ormai periferia del mondo, e il suo passato egemonico e coloniale discusso e condannato, il Mediterraneo, il Mare Nostrum, permane, indistruttibile, poliedrico, eterno con la sua ricchezza e complessità di contesti, storie, significati».
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