Ma davvero c'è tutto, Tutto? Forse neanche Bruno Munari, oggi, saprebbe dire se qui dentro c'è tutto, avendo lavorato così tanto, in tanti campi, per tanti anni. Ma certo, se non c'è tutto, qui c'è molto.
È una mostra affollata, ricchissima, strapiena. «Vorrei che il visitatore ne uscisse esausto», è il desiderio confessabilissimo del curatore, Marco Meneguzzo, critico d'arte, docente all'Accademia di Brera e conoscitore di lungo corso dell'opera e dell'uomo Bruno Munari (1907-98). «E vorrei che vi entrasse come si entrava nel suo studio, quello della casa milanese in via Vittoria Colonna, dove c'era di tutto e dove ovunque - tra piante in miniatura, sassi, carta velina, oggetti di uso comune e altri destinati a diventare pezzi d'arte o di design - potevi trovare una sorpresa».
Benvenuti alla sorprendente, estenuante e esaustiva mostra dal titolo definitivo Bruno Munari. Tutto aperta da oggi al 30 giugno alla Fondazione Magnani-Rocca, a Mamiano di Traversetolo, venti chilometri da Parma e in mezzo alla pianura emiliana. Allestita dentro la Villa dei Capolavori che ospita la collezione di Luigi Magnani, curata da Marco Meneguzzo (il cui padre fu tra i fondatori della Danese, azienda storica del design italiano che ha progettato le cose più importanti di Munari), la mostra «affastella» più di 250 opere di tutti i tipi, sparse in quattro sale, cinque sezioni e settant'anni di idee, lavori, progetti, follie. È il risultato di un'attività frenetica e instancabile, dalla metà degli anni Venti agli anni Novanta, di una persona ordinaria (sempre in giacca e cravatta) ma artista irregolarissimo, una delle figure meno comprese all'epoca e più amate oggi del mondo del design e della comunicazione visiva di tutto il Novecento, e non solo nostro. Amatissimo all'estero, in Giappone Bruno Munari era addirittura considerato «monumento vivente». Un maestro «postumo» che non amava la parola capolavoro, che diceva sempre: «Guai se domani quando ti svegli non inventi qualcosa» e usava l'ironia come il suo più affilato strumento di lavoro. Non per fare sorridere lo spettatore, ma per aggirare le sue diffidenze e le sue idee correnti. «Munari - ci dice Meneguzzo - è un artista perfetto per la società liquida di oggi, nella quale non ci sono barriere fra i diversi territori espressivi. Nessuno è più flessibile di lui».
E nessuna mostra è più flessibile di questa. Di per sé, si può iniziare la visita da dove si vuole. Sì, è vero: c'è un prologo cronologico, dove prevalgono lavori di pittura, collage e grafica (la collaborazione con la fascistissima Rivista illustrata del Popolo d'Italia), fra aeropittura, Secondo Futurismo, più declinato verso l'inafferrabile Prampolini che il rigido Marinetti (ed ecco il dipinto più grande di Munari, Buccia di Eva, 1929-30, rimasto per 60 anni in una casa privata e di cui girava solo una vecchia fotografia, poi riapparso pochi mesi fa sul mercato, acquistato all'asta per 175mila euro ed esposto qui per la prima volta) e opere dagli spunti vagamente surrealisti; ma poi si procede non per anni bensì secondo le diverse attitudini che caratterizzano l'«attraversatore di linguaggi» Bruno Munari. Quali?
C'è l'attitudine a passare attraverso le dimensioni. Dalla seconda (la superficie) alla terza (la tridimensionalità) alla quarta (il Tempo). Ed ecco il ciclo delle Macchine inutili (1934), congegni meccanici sottilissimi che indagano sulle possibilità percettive e che arrivano persino prima dei mobiles di Alexander Calder. Ecco le Sculture da viaggio che ti porti in valigia piegate e poi riassembli sul comodino di quelle stanze anonime di albergo in cui spesso passi un pezzo di vita. Ecco la Lampada Falkland (1964), alta 165 centimetri, che però nel packaging si riduce a un ingombro di tre. Ed ecco i dipinti Negativi/Positivi (dal 1951) che annullano qualsiasi percezione fra sfondo e primo piano...
Poi c'è l'attitudine a sperimentare il limite: delle idee, dei progetti, degli oggetti. Fino a che punto ad esempio - un libro rimane un libro? Lo è anche se dentro non c'è nemmeno una parola? La risposta sono i suoi celebri Libri impossibili. E fino a che punto una sedia resta una sedia? La risposta è la Sedia per visite brevissime con il sedile inclinatissimo, la seduta corta e lo schienale troppo alto progettata nel lontano 1945 e poi realizzata da Zanotta nel 1991. Provate a sedervici.
C'è l'attitudine ad annullare il tempo. Ah, sì? E come? Ad esempio girando Tempo nel tempo, un film di ricerca sul comportamento dell'uomo realizzato da Munari nel 1964 nello Studio di Monte Olimpino, a Como, in cui il salto mortale di un atleta dura tre infiniti minuti. O disegnando nel 1997 per la Swatch un orologio in cui i dodici dischi con i numeri delle ore vagano liberi per il quadrante a ogni movimento del polso: Tempo libero. Oppure inventando Scritture illeggibili di popoli sconosciuti (anni '70) che ci parlano di misteriosi passati e incomprensibili futuri.
E c'è infine l'attitudine a scoprire il mondo. E qui si apre il campo della pedagogia, quello del Munari più popolare, tra laboratori, didattica, giochi per bambini e Prelibri (libretti di 10 centimetri per 10, di colori e materiali diversi, anche in spugna, contenenti piccoli oggetti), dove si dimostra che avere uno spiccato senso dell'infanzia non significa essere, o restare, infantili. Ma sapere guardare le cose con una mente sempre aperta e capire che nelle cose si nascondono altre cose e che il mondo è infinitamente e fantasiosamente più grande di quanto si creda.
E quello di Bruno Munari - popolato da forchette gesticolanti, luci polarizzate, oggetti immaginari, Fossili del 2000, ore indefinite, colori rotanti e fotocopie originali (sì, inventò anche quelle...) - è il più grande di tutti e contiene davvero Tutto.
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