Il 26 dicembre scorso, in concomitanza con il compleanno di Mao Zedong, migliaia di guerriglieri del New People's Army (Npa), il braccio armato del Communist Party of the Philippines (Cpp), hanno celebrato il cinquantesimo anniversario dalla loro nascita. Una ricorrenza, quella dei ribelli rossi, avvenuta in un momento particolare. Da mesi, infatti, si sono riaccesi gli scontri con l'esercito di Manila. Questo gruppo considerato dal governo delle Filippine, da quello degli Stati Uniti e dall'Unione Europea un'organizzazione terroristica è stato fondato da Bernabe Buscayno più conosciuto con il suo nome da battaglia Commander Dante e da Jose Maria Sison alias, Amado Guerrero, in esilio nei Paesi Bassi dal 1987 alla fine degli anni Sessanta proprio in onore di Mao e controlla diverse parti del territorio, in particolare le zone rurali del Paese. Durante le celebrazioni, in vari avamposti nascosti nella giungla, non sono mancate le critiche al Partito Comunista Cinese, al quale si sono ispirati i filippini, considerato, ormai, turbo-capitalista.
Le riforme del mercato varate dopo la morte di Mao, per loro sarebbero servite solo ad allargare il divario tra i ricchi e i poveri e ad alimentare la corruzione, ormai dilagante in tutta la Repubblica Popolare. Jose Maria Sison ha affermato che «il Pcc è diventato anti Mao e che i loro capi sono dei falsi». Promettendo ancora un lotta senza esclusione di colpi contro i nemici del popolo, Sison ha aggiunto che la Cina è diventata come gli Stati Uniti, «un altro potere imperialista che cerca di dominare e sfruttare i filippini». Noi, al contrario, ha concluso il fondatore del Npa, «usiamo il pensiero maoista per capire il carattere e la condotta dei nemici della gente e come realizzare la rivoluzione attraverso la guerra popolare».
All'inizio del mandato di Rodrigo Duterte, una trattativa di pace con il partito comunista, che mirava alla fine di una delle insurrezioni più lunghe dell'Asia, faceva ben sperare. Ma il conflitto tra le forze governative e ribelli si è riacceso il 23 novembre 2017, quando il presidente ha cancellato definitivamente i negoziati. E recentemente gli attacchi si sono intensificati in diverse zone. L'ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto a metà dicembre, quando gli uomini del Npa, armati pesantemente, hanno attaccato un avamposto militare nell'isola meridionale di Mindanao, prendendo con se quattordici ostaggi, inclusi due soldati, e saccheggiando tutti i loro armamenti. Proprio per questi frequenti azioni, alcuni mesi fa, Duterte aveva offerto 25mila peso circa 500 dollari a chiunque avesse ucciso un guerrigliero comunista. «É più conveniente per lo Stato offrire questi soldi che finanziare una guerra contro l'organizzazione», aveva dichiarato in una conferenza stampa. E proprio mentre il conflitto si è riacceso e i ribelli rossi sembrano non aver mollato di un centimetro la loro lotta, in una dichiarazione ufficiale di pochi giorni fa, il portavoce presidenziale Salvador Panelo ha definito «fallita» la ribellione comunista. «La loro causa ha provocato solo la perdita di vite nel popolo filippino, in particolare numerosi studenti che sono stati uccisi durante i combattimenti e che avrebbero potuto servire il loro Paese attraverso mezzi pacifici e produttivi». Panelo ha poi attaccato anche il leader in esilio Jose Maria Sison, accusandolo di «rimanere nella sua casa fatta di lusso e comfort, mentre i suoi compagni muoiono per una causa persa, seppellita nella spazzatura della storia».
Fino ad oggi la lotta armata ha portato alla morti di quasi 40mila persone, oltre a centinaia di migliaia di feriti causati dalle imboscate dei guerriglieri. I ribelli, secondo stime delle autorità di Manila, attualmente conterebbero su circa 4mila combattenti. Alla fine degli anni Ottanta erano stimati in più di 25mila. Ma il rischio di un ulteriore incremento delle violenze, in particolare nel sud delle Filippine, terra già martoriata da anni di guerriglia musulmana in lotta per l'autonomia e ora anche dai diversi gruppi locali affiliati allo Stato Islamico, è più che concreta. «Il presidente Duterte ha promesso di distruggere il movimento rivoluzionario con la forza - ha spiegato Ilang-ilang Quijano, giornalista filippino - Ma tantissimi filippini che sono stanchi della sete di sangue del governo». Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno stimato che sotto il regime di Marcos, dal 1972 al 1986, poco meno di 4mila persone sono state uccise e decine di migliaia detenute e torturate dai militari. All'epoca Marcos è stato praticamente il reclutatore numero uno dei ribelli comunisti, i cui ranghi sono raddoppiati quando lui era al potere. E lo stesso potrebbe accadere di nuovo. La legge marziale, prorogata fino alla fine del 2019 nell'isola di Mindanao, che Duterte definisce essenziale per combattere i guerriglieri e jihadisti, la sanguinosa guerra alla droga portata avanti negli ultimi due anni e la minaccia di estendere la legge marziale in tutto il Paese, sembra essere proprio lo stile di Marcos. E questo potrebbe attrarre molti filippini: il consenso starebbe aumentando soprattutto tra i contadini che vivono nelle zone più povere del Paese.
Nelle Filippine oltre 25 milioni di persone un quarto della popolazione vivono al di sotto della soglia di povertà e l'agricoltura, da sola, genera oltre il 30% dei posti di lavoro. Una bomba ad orologeria che potrebbe esplodere presto.
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