Roma - Giorgio Diritti, bolognese, 49 anni, autore di quel piccolo miracolo di critica e pubblico che fu Il vento fa il suo giro, non ha ancora capito perché L’uomo che verrà non è alla Mostra di Venezia. Nessuno gliel’ha spiegato. A metà luglio era praticamente nel quartetto italiano in concorso, dieci giorni dopo Marco Müller gli offriva un posto nella sezione «Orizzonti». A quel punto, respinto l’invito senza far scenate, il cineasta ha preferito mandare il film al Festival di Roma, dove a ottobre sarà in gara insieme a Viola di mare di Donatella Maiorca e Alza la testa di Alessandro Angelini.
Naturalmente i gusti sono gusti, il menù di un festival è soggetto a ritocchi continui, e tuttavia incuriosisce che l’unica domanda ricevuta giovedì scorso da Müller in merito alla pattuglia tricolore riguardasse proprio L’uomo che verrà. Risposta: «Qui ci sono i film che abbiamo voluto fortemente. Altri festival avranno film che non abbiamo voluto fortemente». Simpatico.
E pensare che L’uomo che verrà sembrava perfetto per il Lido. È l’opera seconda di un regista appartato, originale, fuori dai salotti che contano. Diritti ama le sfide impervie (Il vento fa il suo giro fu girato in lingua occitana), come questa: raccontare alla sua maniera, usando il dialetto stretto, senza concessioni ideologiche, la strage di Monte Sole, cioè quella che la comune retorica civile chiama «eccidio di Marzabotto». Furono quasi 800, per la precisione 770 (non 1830 come a lungo sostenuto), le vittime innocenti di quel massacro perpetrato con burocratica ferocia dalle truppe naziste nei giorni tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nell’area collinosa di Monte Sole. Scendendo verso Bologna, racchiude le piccole borgate rurali dei Comuni di Marzabotto, Monzuno, Grinzana.
«Voglio dare voce a tutte quelle vittime civili e urlare con loro basta alle guerre. I civili ormai non contano. Le loro vite sono solo numeri, quelli che tutti sembrano disposti a pagare in nome del potere», accusa Diritti. La storia del film si sviluppa nei nove mesi precedenti la strage, sposando il punto di vista particolare di una bambina di otto anni. Spiega il regista: «Pur con qualche problema di relazione con i coetanei (la ragazzina ha perso la parola per un trauma, ndr), Marina vive quel periodo, nell’attesa dell’arrivo di un fratellino, come momento di crescita, come età in cui ogni giornata è fatta di stupore e meraviglia». Man mano, però, prendono spazio gli eventi bellici, e alla fine sarà l’inferno. Con una sorpresa, però.
Quasi un kolossal, rispetto a Il vento fa il suo giro, questo film da 3 milioni e mezzo di euro, garantiti in buona misura da Raicinema, dal ministero, dalla Toscana Film Commission, dalla Cineteca comunale di Bologna e dalla Fondazione Cassa di Risparmio bolognese. Nel cast spiccano volti noti, come Maya Sansa, Alba Rohrwacher, Stefano Bicocchi in arte Vito, Eleonora Mazzoni, e meno noti, come Claudio Casadio e Diego Pagotto; più decine di comparse, per lo più contadini, provenienti dai luoghi reali dell’eccidio. Chi l’ha visto ne parla come di un film «un po’ alla Olmi», per come restituisce la vita rurale, le dinamiche familiari, la fatica del lavorare la terra.
Raccontò a Paolo Mereghetti il regista: «Il mio non è un film di guerra. È un film su come la guerra entra nella vita delle persone, distrugge le loro speranze e i loro sogni, cambia le carte in tavola. E su come lo faccia nel modo più tragico: negando la vita». Ecco allora la storia della famiglia Palmieri, già segnata dalla morte di un figlio. Il capofamiglia spera nella nuova gravidanza della moglie Lena, appunto Maya Sansa, gran lavoratrice dedita al sacrificio, mentre la cognata, Alba Rohrwacher, vorrebbe abbandonare quella dura vita per un posto da servetta a Bologna. Stretti tra i partigiani della brigata Stella Rossa guidati dal comandante Lupo e i tedeschi che all’inizio non sembrano così minacciosi, i Palmieri si ritrovano nel fuoco di una guerra che non fa prigionieri. A conti fatti resteranno sul terreno 216 bambini e 554 adulti, perlopiù donne e anziani.
Probabilmente colpirà una certa pietas cristiana che deriva dal libro Le querce di Monte Sole, scritto da monsignor Luciano Gherardi e scelto come spunto per la sceneggiatura.
Sarà per questo, confessa il regista, che «nel complesso il film ha ricevuto più attenzione dall’area della sinistra cattolica che non dalla sinistra vera e propria»? D’altra parte, aggiunge pur esecrando un certo «revisionismo laido» in fatto di Resistenza, «le medaglie sono sempre state date ai partigiani e non ai superstiti di intere famiglie sterminate».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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