«Vi racconto Antonia E la mia vita dopo Masterchef»

Maurizio Bertera

Antonia Klugmann, tra pochi giorni torna Masterchef Italia e lei si trova qui in mezzo ai boschi del Collio: un «buen retiro» sorprendente dopo l'esperienza del 2017. È un posto bellissimo ma insomma, l'unica donna giudice è uscita di scena

«Ma tre della vecchia guardia sono rimasti e Locatelli è bravo, quindi il programma andrà benissimo. Ammetto che qualche mese fa sentivo abbastanza l'assenza delle riprese, dei colleghi, dei viaggi. Ma non mi mancano i tempi morti nella lavorazione, eccessivi per il mio modo di vivere. Fare tivù è divertente e noioso al tempo stesso».

L'esperienza è stata positiva comunque.

«È stata importante. Intanto mi ha permesso di mettermi in discussione, mi sono connessa con una realtà nuova e più ampia quindi non mi sono assolutamente pentita della scelta. Poi perché uscire per due mesi da quel mondo molto concentrato in cui noi cuochi ci troviamo a vivere, per fare qualcosa di completamente diverso, è stato arricchente. E infine c'è stata la presa di coscienza femminile: per dodici anni sono stata una cuoca che non pensava mai alla sua immagine e aveva difficoltà a rivolgersi alla gente. Ora è un'altra storia».

Le piaceva il ruolo di «cattiva», quantomeno la severa del gruppo?

«Da un lato per gli autori c'era il bisogno di colmare il ruolo lasciato da Cracco e plasmarlo su una donna, dall'altro io amo le cose fatte alla perfezione. Ma non era certo una situazione ad hoc per creare un personaggio. Semmai devo dire che sono rimasta basita, offesa a volte da quanto usciva inizialmente sul web, con attacchi pesantissimi al mio fisico e al mio essere l'unico giudice donna. Questa è la cosa che ricordo con maggiore dispiacere».

C'è una parte del «movimento» che insiste sempre più ad alta voce sui danni causati da Masterchef verso gli appassionati di ogni età e i giovani in crescita.

«Non sono d'accordo. Masterchef è sostanzialmente comunicazione, ha conquistato il pubblico e riempito le cucine. Non è un documentario sul lavoro del cuoco ma un reality come altri, che mette in evidenza i più bravi e regala un po' di notorietà a tutti. Quando un concorrente mi chiedeva seriamente come si fa a diventare cuochi, rispondevo Inizia come lavapiatti e studia il più possibile. Non è cattiveria. Bisogna spiegare quanto il nostro lavoro regali gioia ma sia impegnativo, al di là di possedere o meno il talento».

Lei lo aveva, ma paradossalmente senza un brutto incidente in auto, forse non sarebbe diventata la famosa «Klughy» come la chiama Joe Bastianich.

«Era il 2005 e avevo 26 anni: ero già passata nella cucina di grandi chef come Bruno Barbieri e Riccardo De Prà. Sono rimasta in convalescenza per un anno: la mia sola attività era coltivare, raccogliere, fare passeggiate, e studiare la botanica ma in quel periodo ho trovato la chiave e subito dopo mi sono buttata con cuore e coraggio - come racconto nel libro in una nuova avventura. E dopo varie esperienze tra Udine e Venezia, insieme al mio compagno Romano De Feo, ho deciso di aprire il primo locale di proprietà».

Curioso però: lei è triestina, L'Argine è in pieno Collio

«La scelta ha avuto a che fare proprio con il mio essere triestina: provengo da una città di confine, aperta, in cui influenze e culture diverse si incontrano e si incrociano. A scuola non esistevano cognomi italiani ed ero convinta che questa fosse la normalità La scelta di stare in campagna invece è tutta mia: nella mia famiglia non ci sono storie contadine, sono stata io da adulta a desiderarla a e oggi cerco di sfruttare al massimo le potenzialità di questa scelta. Poi, mi sono convinta con il tempo che ha molto senso gestire un locale vicino al vino».

Ha impiegato tantissimo per aprire.

«Non è stato semplice, anche e soprattutto per motivi economici: non ero una cuoca ricca o famosa. Quando ho visto questo rustico e comprato il terreno a 31 anni, mi davano della matta ma ero convinta. Se avessi un ristorante in città dovrei impazzire per trovare la materia prima giusta, a Vencò passo senza problemi dai fiori di sambuco all'edera terrestre...».

Qui il foraging non è marketing, ma pratica quotidiana.

«Abbiamo un ettaro di terra nostro ma i ragazzi vanno anche nel bosco, sul greto del fiume, nei prati selvatici: imparano a riconoscere le erbe e i fiori, a coltivarle, a raccoglierle e a reciderle: sono gesti che cambiano il sapore del prodotto e quindi del piatto. In pratica, è un corso di botanica applicato alla cucina. Tutti in brigata lo fanno per due ore al giorno, per sei mesi di fila, così capiscono quanto sia dura la vita del contadino. Ed è anche un impegno che rende umili e disciplinati i miei collaboratori».

Un concetto quasi militaresco. Non è che la Klugmann di un tempo è entrata in modalità Cracco, versione Hell's Kitchen?

«Sarebbe un complimento detto da Carlo (e ride di gusto, ndr) ma non è un mio copyright. È un passo in avanti nella cultura di un cuoco, perché in quelle due ore se hai voglia ti poni un sacco di domande e trovi l'ispirazione giusta. Il problema è che non tutti i cuochi si fanno le domande e tanti copiano. Esattamente l'opposto di Redzepi che per me resta l'idolo assoluto, fermo restando che ultimamente i piatti di Crippa e Romito mi hanno conquistato».

Parliamo di donne in cucina?

«Esserlo rappresenta un fattore di selezione. Come donna ci tengo a sottolineare come le ore di lavoro necessarie per essere competitivi a certi livelli siano uno dei motivi per cui risulta più difficile per noi eccellere in questo contesto. Soprattutto dopo una certa età, il fatto che a una donna venga chiesto di stare 12 o 14 ore al giorno in una struttura, magari non di proprietà, diventa un vincolo per la carriera. Ma vale per molti altri lavori, sia chiaro».

Messaggio finale, Antonia? Lanciamolo ai giovani cuochi, quelli che come lei al terzo anno di Statale a Milano, pensavano a un altro lavoro, non erano figli d'arte e per un corso di cucina hanno avuto la

folgorazione.

«Devi rimanere curioso, non devi accontentarti del primo successo. A me non piace vedere un giovane che si siede. Il bravo cuoco deve mettersi continuamente in discussione, essere sempre alla ricerca di qualcosa».

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