Viaggio nel cuore della Val Germanasca scavando con lingua dura la "Pietra dolce"

Nei suoi romanzi Valeria Tron fa rivivere le tradizioni e la storia dei valdesi. Creando letteratura "eretica"

Viaggio nel cuore della Val Germanasca scavando con lingua dura la "Pietra dolce"
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La sua carne si muove e genera storie. Tutto il corpo, non solo una parte. Le mani, la voce, gli occhi, le dita, il cuore. Valeria Tron deve avere nel sangue qualcosa dell'apostolo spesso dimenticato, l'altro Giuda, quello che per non confondersi chiamano Taddeo. Giuda Taddeo, dall'aramaico taddajja. Giuda di Petto. Giuda Lebbeo da libba, cioè cuore. L'apostolo dai tre nomi. Giuda dal grande cuore. L'anti Iscariota. Lo sposo delle nozze di Cana. Il santo che ha convertito gli armeni.

Non sai perché Valeria Tron (nella foto) ti fa pensare a Giuda Taddeo, forse perché in lei c'è qualcosa di antico e una resistenza testarda ad arrendersi ai sentimenti comuni, quelli che ti invitano all'indifferenza, al «chi te lo fa fare», al seguire la strada più semplice, già battuta, dove non si può deviare dalla canzone che tutti stanno cantando. Valeria è una che torna a casa per ridare una voce a chi non c'è più, terra su ombra, corpo su anima, segno su pietra. È l'ossessione di non far svanire nelle secche della memoria le genti e le cose della Val Germanasca, lì dove vivono gli eretici, i valdesi nascosti nei boschi, che ancora parlano il patois, figlio dell'occitano della chanson de geste. Ecco perché Taddeo, l'apostolo delle imprese impossibili.

Valeria fa i miracoli a modo suo, con la testardaggine di chi sposta, mischia e apre i confini della realtà, con il suono della sua lingua che si fa materia e apre corridoi dove si presentano personaggi leggendari che si aggirano per la valle. Lo ha già fatto con il meraviglioso L'equilibrio delle lucciole (Salani), con le lettere di Adelaide al figlio Gioele, le radici ereditate da nonna Memè, lo specchio dove riconoscersi di zia Nanà, i racconti di bar Tricot, lo sceriffo dell'allegria. «Una storia vale solamente se ci sono: un oratore, una buona dose di dettagli, ritmo e la curiosità dell'uditorio. Se c'è tutto questo la storia rimane. Sennò passa». Storie eretiche e bastarde, di bosco e di miniera, di un tempo che tempo non è, dove ogni cosa si muove a modo suo, con le sue ragioni, dove il perdono è un sentimento da conquistare e l'amore si sente sulla pelle, con cristi che scendono dalla croce e bestemmie che non offendono nessuno. Qui non c'è bisogno di realismo magico. Non c'è la necessità di guardare con occhi lontani quello che accade. Qui la realtà è già magica, basta narrare quello che si vede e accade e si ricorda. Il segreto sono le parole, perché loro contengono la valle, la fanno vivere.

Questa magia reale si espande prima in orizzontale e poi va giù, in verticale, dove i polmoni si inaridiscono, con il secondo romanzo. Pietra dolce (sempre Salani) parla la stessa lingua, solo che questa volta si sconta nella solitudine e la speranza è un atto sociale, un recupero, un rinascimento, il respiro dopo un boato. È l'avventura di Lisse, odisseo che ha perso la U, e questa lettera carica di umanità ognuno la può interpretare come vuole. È un paradiso perduto. È la Germanasca, con la miniera di talco, gli orti, il lato selvaggio della camminata e le borgate che guardano la cascata. Lisse è l'invisibile, l'esiliato nella valle che chiama casa. È il senza più storia. Qualcuno dovrà recuperare il suo senno, da qualche parte perduto, magari sulla Luna. È la missione di Lumière, il gigante che fa oracoli, di Tedesc, il vecchio liutaio che parla tre lingue e di Giosuè Frillobèc, l'amico di sempre che zoppica sulle parole.

Eccole, ancora, le parole, quelle che Valeria rende vere e non è affatto banale riuscirci, ma lei è mani, voce e scrittura. È legno e chitarra. È una scrittrice che non fa consorteria, ma si muove in questo mondo di lettere con la testardaggine antica dei valdesi, eretica a tutto. È un arcobaleno strampalato sulle tempeste.

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