Qualcuno di voi se lo ricorderà con un abito scintillante e un paio di occhiali giganteschi, sormontati dalla capigliatura afro, suo marchio di fabbrica, in una esibizione incendiaria al festival di Woodstock. Sylvester Stewart, noto ai più come Sly Stone, in quel frangente mostrò al mondo di che pasta fosse fatto, facendogli intendere che la miscela di funk e psichedelica della sua band, Sly and the Family Stone, avesse un che di unico.
Thank you (Jimenez, traduzione di Alessandro Besselva Averame, pagg 288, euro 22) è la sua autobiografia, una torrenziale raccolta di ricordi che solo in parte ricostruiscono una vita costantemente sulla corsia di sorpasso. Solo in parte, perché a far compagnia all'eclettico polistrumentista texano c'è sempre stata la cocaina. Il nome Sly and the Family Stone la diceva lunga sulle intenzioni non convenzionali del suo leader: una famiglia in musica. Per modo di dire, considerato che con lui suonavano suo fratello e sua sorella, ma pure altri compagni di avventura.
E la musica, quanto di più marcatamente «black» si potesse sentire al tempo, era creata con l'ausilio anche di un paio di musicisti bianchi. Come gli accadde spesso, il «nerissimo» Sly Stone ogni tanto usciva dal coro. «Alcuni ascoltatori pensavano che un'emittente R&B non dovesse trasmettere artisti bianchi. Ma questa cosa per me non aveva senso. La musica non aveva colore».
Siamo nel periodo in cui le Black Panther dettavano legge, ma a Sly interessava divertirsi: «Dietro alla band c'era un'idea, bianchi e neri insieme, sia maschi che femmine». Eppure le Black Panther erano convinte che Sly si avvicinasse «troppo a quello che voleva l'America Bianca» e lui non si sforzava particolarmente di guadagnarsi la loro simpatia.
La vita di Sly Stone è un romanzo a tinte forti: una casa aperta sostanzialmente a tutti in un certo mondo dorato, ovviamente cani, droghe, pistole e donne a non finire. Eccessivo in tutto e spendaccione fin quasi alla bancarotta (arrivando a possedere fino a 13 automobili regolarmente assicurate), Sly fu davvero una delle prime superstar nere moderne, intrigando persino uno come Miles Davis, non certo incline ai facili entusiasmi. D'altro canto, il sound della sua band era travolgente e i concerti non mancavano mai di far ballare la gente.
In precedenza, il celebre singolo Family Affair, tratto da uno dei dischi di maggior successo, There's a riot goin' on, del 1971, era finito al numero uno delle classifiche scalzando Theme from Shaft di Isaac Hayes.
Il resto è annacquato dalle nebbie delle sostanze psicoattive e da un narcisismo patologico, anche questo un elemento quasi immancabile nella costruzione di una star di prima grandezza. Il percorso di redenzione dalle droghe è forse meno intrigante, ma corrobora la leggenda.
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