Una volta nei saloon il malcapitato che doveva allietare con le sue note avventori più o meno sobri esponeva timidamente il cartello «Non sparate sul pianista». Oggi sarebbe utile ripetere il segnale all’esterno delle redazioni. Prendere di mira i giornalisti infatti si rivela una granitica abitudine mentale che punta il dito, a prescindere, contro la «casta» (per fortuna il termine si sta inflazionando) dell’informazione. Niente di nuovo, per carità. Già l’esistenzialista Kierkegaard derogava dal suo Aut Aut arroccandosi in un monotematico disprezzo per la categoria dei «notturnisti», come li chiamava lui. Per non dire di quell’illustrissimo collega d’inizio Novecento che, non avendo il coraggio di confessare alla madre che faceva questo mestiere, la rassicurava dicendole che suonava il violino in un bordello di periferia.
L’ultimo «alzo zero» arriva però da dietro le linee ed è il libro di Luigi Bacialli (ex del Giornale) Casta stampata. Vizi, virtù e privilegi dei giornalisti (Mursia, pagine 214, euro 17, prefazione di Massimo Fini). Un attacco frontale, anche se viene dall’ultima di copertina: «Quella dei giornalisti rimane una categoria privilegiata, supponente e mai contenta che, paradossalmente, ha perso il senso della misura e della realtà». Diagnosi che ha l’ottimismo del de profundis e che rende superfluo chiedersi se ci siano posti in rianimazione. Bacialli srotola qui, con lo stile garbato e ironico che gli è proprio, il suo lungo papiro professionale. Da apprendista ventenne alla Notte alla direzione di Indipendente, Libertà di Piacenza, Giornale di Vicenza e Gazzettino. Parte, com’è ovvio, dall’altopiano degli ideali, dove si respira la «miscela» giusta per affrontare la professione, e dove sfila la carovana delle qualità: «Passione, umiltà, curiosità, entusiasmo, gioco di squadra, qualche frazione di cultura e tanto, tanto spirito di sacrificio» (altro che l’obsoleto «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare»).
Il giovane praticante sull’altopiano si trova bene. Anche se il direttore, il grande Nino Nutrizio, lo invita subito a gettare uno sguardo in basso, nel canyon della realtà: «Signor Bacialli, vi immaginate quante copie perderemmo se i lettori, vedendo con i loro occhi i giornalisti, capissero veramente con chi hanno a che fare?». Le virtù, però, evaporano presto e la «casta stampata» finisce col mostrare inevitabilmente la materia umana della sua faccia nascosta (ai lettori): «Pennivendoli impigriti e permalosi, babbioni stanchi e frustrati, lacchè e zerbini sulla rotta fissa poltrona-scrivania-poltrona». Sotto tiro Bacialli mette, e qui è naturalmente il Bacialli direttore, in particolare «gli invidiati speciali», quelli che alloggiano nel «cimitero degli eleganti», gli inviati che aspettano solo di prendere «il primo volo per il prepensionamento». Gente che neppure uno tsunami riesce a smuovere. «Telefonata: “Dovresti andare subito a Londra”. Risposta numero uno: “È appena mancato mio suocero”». E se l’impatto giustificativo è debole, «risposta numero due: “Sono al funerale di una mia vecchia zia”». E ancora: «Un incendio in un albergo di montagna ha fatto molti morti. Risposta: “Cosa vado a fare, le fiamme sono già state domate da un pezzo”».
Insomma, puntando sul «lato tragicomico della professione e sul peggio che il giornalista al lavoro riesce a dare di sé», Baciallino (così lo chiamò Montanelli quella volta che al telefono gli diede involontariamente del «brutto pirla») ha colto l’occasione per togliersi non poche pietruzze dalle sue calzature di lungo corso. Con una rapsodia di aneddoti sui maestri, gli editori, i colleghi intoccabili, i lettori bizzarri o fuori di testa, industrialini e industrialotti, politici, leader più o meno carismatici, su su fino al Papa. Sempre all’interno delle coordinate di un mondo che sembra destinato ad implodere: «Il New York Times ha pronosticato la fine del quotidiano tradizionale nel 2012». Amen.
Resta poco tempo, dunque, per godere del menu dei privilegi: viaggi gratis, regali lussuosi, mutua principesca, mutui agevolati (ma qui Bacialli è meno informato: c’è chi da anni paga il tasso fisso dell’8 per cento), corsie privilegiate per gli acquisti, primari sempre disponibili a fare una visita in caso di necessità. Quanto al potere - lo ricorda Fini nella sua preziosa (e impietosa) prefazione - il discorso è chiuso da un pezzo: «Abbiamo perso la capacità di essere un “contropotere” nei confronti della classe politica: perché nella stragrande maggioranza dei casi ce ne siamo fatti servi».
Allora è proprio così privilegiata la condizione di questa «stragrande maggioranza»? Di quegli «aurei mediocri» che puntellano con impegno, ogni giorno, le strutture redazionali? È davvero sul piedestallo il bracciante della tastiera, la guardia giurata del monitor, il frullatore non stop dei lanci d’agenzia (oltre 80mila a settimana), il forzato cesellatore di titoli e sommari, il servizio d’ordine per extracomunitari della sintassi, il patito (da patire) del doppio turno lavorativo, feriale e festivo? Diciamolo: la maggioranza dei giornalisti l’isola della Casta la può anche circumnavigare, ma non vi sbarca mai.
Ma se anche alla fine ci si rende conto che il continuo affanno del redattore si riduce al biblico «tutto è fumo e mangiare vento», questa professione un vero privilegio ce l’ha. È l’incontro con l’imponderabile che fa lo sgambetto mentre si cerca in tutta fretta di confezionare freschi scampoli di realtà. È il gioco sadico di un refuso che si traveste da istanza metafisica: «Non sembrò del tutto casuale - racconta Bacialli - che in un resoconto del viaggio di Hitler a Roma la “notte primaverile dell’illustre ospite” divenne “la prima notte virile dell’illustre ospite”». Oppure può essere la perdita, non si sa quanto volontaria, di una «t» a trasformare il titolone d’apertura di un quotidiano veneto, «Grande processione per il culto della Vergine», in un happening davvero diabolico. Anche i corrispondenti non disdegnano la metafisica: «Il ladro in fuga fu raggiunto da sette proiettili, di cui solo uno fortunatamente mortale».
Infine c’è «l’anima goliardica», per Bacialli ormai moribonda, che qualche volta spunta prepotente tra un’agenzia e l’altra e ti spinge a fare di una notizia - dopo averla trattata professionalmente - un modico uso personale. Anni fa ci fu l’emergenza dello sbarco degli albanesi in Puglia e in redazione si pensò subito di chiamare il collega, riservato, geloso delle sue cose e non proprio prodigo, che aveva la villa sul litorale ionico. Una fantomatica unità di crisi del ministero degli Interni gli chiese se poteva ospitare per qualche giorno un paio di famiglie di profughi, con prole. Non si seppe mai come riuscì a proteggere il suo sistema cardiocircolatorio, ma non cedette. Nonostante le insistenze - «Prenda almeno i bambini. Come li vuole? Li vuole biondi? Basta un piatto di minestra...» - fu irremovibile.
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