Non sono sorpreso del successo in Iowa di Barack Obama tra i Democratici, e di Mike Huckabee tra i Repubblicani. Chi conosce la storia delle elezioni presidenziali americane, sa che vi sono delle grandi tendenze che si ripetono nel tempo. Questa volta entrambi i candidati affermatisi nello «Stato del Falcone» (Hawkeye State) esprimono un sentimento già individuato dagli analisti: gli americani vogliono cambiare e diffidano di personaggi dell'establishment politico. E tale mood, ormai largamente diffuso, è tanto più visibile in un piccolo Stato come lo Iowa, che è estraneo alle grandi correnti nazionali e resta ancorato alla solida tradizione rurale dell'America profonda che comincia ad est con i Monti Appalachi e finisce ad ovest con le Montagne Rocciose.
Hillary Clinton, addirittura terza in casa Democratica anche dietro il populista John Edwards, ha subìto una batosta perché in lei si è visto il simbolo della casta washingtoniana, la continuità del potere, e l'arroganza del denaro raccolto in così grande quantità da far dire che ormai era una candidata invincibile. Sul fronte Repubblicano i due candidati di rilievo nazionale, l'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani e l'eroe di guerra e senatore dell'Arizona John McCain, erano entrambi consapevoli che la partita nel piccolo Stato si sarebbe giocata nella destra conservatrice e religiosa, per cui a nulla sarebbe valsa una campagna dispendiosa per conquistare qualche punto di più.
La diffidenza verso il potere è, questa volta, ancor più che in passato, l'argomento principale delle elezioni presidenziali. Passato lo shock dell'11 settembre, per cui era stata benvoluta una presidenza decisionista, e diminuita la centralità della guerra in Irak dopo anni di tensione e di controversie, sono così tornate sul proscenio della politica la cultura della limitazione del potere e la voglia di voltare pagina.
Ciò detto, non si può certo affermare che quel che è accaduto in Iowa possa essere proiettato su scala nazionale. In primo luogo perché è proprio della variegata cultura politica americana e delle sue strutture federalistiche dare luogo a comportamenti elettorali differenziati tra le diverse aree del paese; e lo Iowa è uno Stato talmente marginale che può far testo soltanto per pochi altri Stati con analoga composizione sociale e religiosa.
In secondo luogo perché la diffidenza verso le personalità dal look liberal sui temi cosiddetti «etici», come lo sono la senatrice Clinton nei Democratici e l'ex sindaco Giuliani tra i Repubblicani, non è vissuta nella stessa maniera negli stati tradizionalisti del Mid-West e del Sud e in quelli metropolitani delle due coste, New York sull'Atlantico e la California sul Pacifico. Infine perché, per essere eletto, occorre che un candidato conquisti almeno 270 dei 538 voti elettorali che sono attribuiti in maniera ponderale ai singoli Stati (per esempio 7 allo Iowa, 4 al New Hampshire, mentre lo Stato di New York vale 33 e la California 55).
Si vedrà nelle prossime settimane fino a che punto i 350 mila elettori che hanno partecipato ai caucus nello Iowa hanno provocato un forte impatto psicologico. A mio parere, nel campo Democratico, la candidata Clinton è tuttora in corsa con buone chance di successo perché la macchina elettorale del suo gruppo è potente e le risorse finanziarie abbondanti, tenuto anche conto che alle sue spalle si intravede l'ombra di George Soros; e, nel campo Repubblicano, i due candidati risultati in testa in Iowa, Mike Huckabee e Mitt Romney, dovranno confrontarsi con situazioni assai diverse nelle quali i loro profili possono risultare poco interessanti anche per alcuni settori del loro stesso partito dell'elefante.
Prima di fare drastiche previsioni e generali proiezioni, è dunque saggio attendere la vera prova del fuoco che arriverà con il cosiddetto «supermartedì» del 5 febbraio.
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