"Siamo soldati (in)volontari nell'esercito delle Big Tech"

Parla l'esperta del rapporto fra tecnologia e società, Asma Mhalla "Gli algoritmi sono ideologici e ci possono manipolare"

"Siamo soldati (in)volontari nell'esercito delle Big Tech"

I colossi tecnologici non ci offrono solo mezzi sempre più potenti e pervasivi (e sono molto potenti e molto pervasivi). Stanno cambiando il nostro mondo dalle fondamenta: vecchi dogmi si sgretolano, istituzioni consolidate mostrano crepe, i contorni di antichi concetti come guerra, società, democrazia, Stato, politica, intelligenza, individuo, economia, verità e identità assumono nuove forme. Di questo si occupa Asma Mhalla, politologa franco-tunisina che insegna alla Columbia, a Sciences Po e all'École polytechnique, nel suo saggio Tecnopolitica. Come la tecnologia ci rende soldati (Add editore).

Asma Mhalla, che cos'è la tecnopolitica del titolo?

«È un concetto elaborato dagli studiosi occidentali al tempo delle Primavere arabe, quando i social media apparivano strumenti straordinari di emancipazione per la società. Ma è un concetto debole, che ho ridefinito, per dire che la tecnologia non riguarda la tecnica o gli strumenti, bensì la politica: la tecnologia è politica, prima di tutto».

Parla di un progetto di «Tecnologia totale». Che cosa significa?

«Oggi esistono nuove forme di potere, collegate a quelle che chiamo Big Tech, o giganti tecnologici, alle piattaforme digitali e agli Stati e questo insieme ridefinisce i concetti stessi di sovranità, democrazia, stato di diritto... Lo sperimentiamo coi nostri strumenti di uso quotidiano: i social media, i dispositivi di Ia, le piattaforme di e-commerce sono ormai piattaforme di pubblica utilità e non più solo strumenti; il problema è che queste piattaforme sono private e appartengono ai giganti tecnologici, i quali perciò influenzano il modo in cui viviamo».

Come?

«Il progetto di Tecnologia totale è l'idea che, attraverso queste tecnologie private, le Big tech stiano realizzando un'agenda politica e ideologica di controllo: controllo della politica stessa, del nostro futuro e del modo in cui funziona la democrazia. E questo controllo è nelle mani di poche persone».

La Tecnologia totale può diventare totalitarismo?

«Può diventarlo. Dipende da chi la controlla, ed è proprio questo il grosso problema: tutti dipendiamo dall'agenda politica e ideologica dei proprietari di questi strumenti. Le loro aziende controllano i nostri dati e, perciò, le nostre vite. Lo vediamo anche con la situazione della democrazia negli Stati Uniti, con Musk e Trump».

Però Musk e Trump ci mettono anche di fronte alle debolezze del nostro sistema?

«Assolutamente sì. Nel mondo occidentale siamo soliti giudicare i regimi autoritari come fossero modelli lontanissimi dalle nostre democrazie liberali. Ma ora, all'improvviso, ci siamo accorti che anche le nostre democrazie rischiano di essere trascinate nell'autoritarismo. Per l'Europa poi c'è un problema ulteriore, dovuto al fatto che siamo dipendenti dai sistemi tecnologici dei giganti americani: per questo siamo completamente fragili e aperti alle loro interferenze».

Nella sua visione, come funziona il sistema delle Big Tech?

«Non si capisce la loro essenza se non comprendiamo che non sono solo aziende capitalistiche, bensì entità ideologiche e anche attori militari. Si pensi in Ucraina a Starlink e Palantir... Le Big Tech sono entità politiche ibride. E funzionano come un trittico, in cui la dimensione tecnologica è guidata da un modello economico e dalla politica, in modo interdipendente. Lo vediamo con Musk, il quale non si limita a cercare nuove tecnologie bensì persegue una sua agenda ideologica, per realizzare la quale ha elaborato una certa struttura tecnologica - per esempio X/Twitter - in modo che essa porti a compimento la sua visione del mondo e, allo stesso tempo, gli permetta di fare soldi. È una interazione completa».

Gli algoritmi sono ideologici?

«Lo sono. Gli algoritmi sono per forza di cose impregnati di pregiudizi, perché sono disegnati da esseri umani, i quali hanno sempre punti di vista, opinioni, propensioni, idee... Perciò gli algoritmi non possono essere neutrali, anzi: l'idea che la tecnologia sia neutrale è falsa e pericolosa. Detto ciò, all'interno di una certa agenda politica possiamo progettare gli algoritmi in modo che alcune idee emergano e siano più visibili, e altre vengano oscurate. Perciò gli algoritmi sono prima di tutto politici, e poi tecnologici».

Così possono manipolare l'opinione pubblica?

«La manipolano e la influenzano, ma non credo che esista una opinione pubblica, perché ormai ne esistono molte: la società è estremamente polarizzata. E ovviamente i social media influenzano il modo in cui l'informazione viene prodotta e, attraverso l'informazione, l'agenda politica; in questo processo, gli algoritmi si comportano come editori, scegliendo quali informazioni dare e quali tenere più nascoste... Il risultato è che non abbiamo pieno accesso alla realtà».

Lo abbiamo mai avuto?

«La differenza enorme, rispetto ai media tradizionali, è nella dimensione del fenomeno; nell'approccio, che non è più dall'alto al basso bensì ibrido, poiché tutti possono produrre contenuti; infine, nel fatto che i proprietari delle Big Tech possano anche influenzare il modo in cui l'algoritmo pubblica il contenuto».

Perciò rischiamo di diventare «soldati»?

«Sì. La ipertecnologia, che disegna la cornice delle nostre vite, è duplice: civile e militare. Lo vediamo con ChatGpt, che può essere utilizzata per svago o per lavoro, ma anche sul campo di battaglia. O con i social, che sono una forma di intrattenimento ma diventano un'arma nella cosiddetta infowar, che serve per interferire all'interno dei Paesi o in momenti di conflitto, come strumento di propaganda: perciò la chiamiamo guerra ibrida».

È il caso di TikTok, il social cinese così diffuso fra i giovani occidentali?

«Certamente, anche TikTok è diventato un'arma elettorale. Durante la presidenza Biden, il direttore dell'Fbi ha detto che probabilmente TikTok è uno strumento di cyberspionaggio, ma di non averne le prove. Eppure, proprio nel gennaio scorso, Trump ha detto di essere contento di TikTok, perché gli consente di raggiungere la platea dei giovani americani: quindi TikTok, in quanto cinese, è allo stesso tempo l'incubo dell'Occidente, ma anche uno strumento potentissimo di reclutamento. E questa piccola storia è emblematica del dilemma dei social media: si trovano sempre in una zona grigia».

Però questa duplicità dei media e la propaganda non sono sempre esistite?

«Certo, ma la specificità di questo doppio uso dell'ipertecnologia è che tutti la utilizziamo, perché si trova nelle nostre tasche: il punto di contatto è il nostro smartphone, attraverso il quale possiamo diventare dei soldati inconsapevoli, esposti alla guerra ibrida, alla propaganda e alla manipolazione delle informazioni. Forse anche le nostre attività cerebrali finiranno per essere monitorate. I vecchi concetti e le vecchie frontiere diventano liquidi: sono avvolti in una nebbia nella quale ciascuno di noi diventa un bersaglio. Dobbiamo esserne consapevoli».

È quella l'inquietante «guerra cognitiva», in cui il nostro cervello è il terreno di battaglia finale?

«L'infowar è condotta per manipolare le informazioni e il loro contenuto, ma anche per manipolare il modo stesso in cui interpretiamo e consumiamo questi contenuti. È una tecnica sottile. L'abitudine di scrollare per ore sullo smartphone è parte della manipolazione cognitiva, perché spinge in uno stato ipnotico, in cui si diventa vulnerabili e si può accettare qualunque messaggio».

L'obiettivo finale qual è?

«Non il singolo, non il fatto che una persona sia d'accordo con il messaggio stesso, bensì il caos globale: che si dubiti di tutto. Come diceva Hannah Arendt, se tutti dubitano di tutto, puoi far fare loro ciò che vuoi. È una forma sofisticata di manipolazione».

Come possiamo sopravvivere in questa guerra?

«Primo punto: la consapevolezza. Secondo: educhiamo i nostri algoritmi, con le nostre ricerche. Terzo: un'igiene cognitiva, come la doccia e lo shampoo al mattino, una guida al consumo su internet».

La democrazia sopravviverà?

«Dipende da noi, collettivamente. Da quale società vogliamo costruire. I partiti progressisti sono debolissimi perché non hanno una visione del mondo; quelli di estrema destra invece sono audaci nella loro visione, e i loro discorsi del resto sono molto popolari, perché in effetti siamo in crisi. Perciò dobbiamo costruire una narrazione alternativa: se i politici non si impegnano in questo senso, probabilmente perderemo».

Lo pensa davvero?

«È logico. I governi devono davvero impegnarsi, non pensare alla piccola politica, alle elezioni imminenti, alla carriera...

Dobbiamo pensare in grande e essere ambiziosi e costruire una narrazione e una strategia coraggiose, anche in economia. Dov'è forte l'Europa, a livello di industrie? Nessuno lo sa. Va costruito tutto questo. Se invece l'Europa continua a offrire solo parole vuote, perderemo».

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