Whitman cantò se stesso per capire le moltitudini

Il componimento autobiografico a cui il poeta ha lavorato tutta la vita arriva in edizione critica

Whitman cantò se stesso per capire le moltitudini

Nel 1855 un certo Walt Whitman di New York, che aveva lasciato la scuola a undici anni, aveva fatto il tipografo, il maestro elementare, poi il giornalista, e aveva letto quello che leggevano più o meno tutti la Bibbia, Omero, Dante, Shakespeare, naturalmente, e poi Ossian, Edgar Allan Poe e i filosofi trascendentalisti... ebbene questo trentaseienne ancora senz'arte né parte pubblica a proprie spese un libretto di neanche cento pagine intitolato Foglie d'erba. Il volume comprende una introduzione in prosa e dodici poesie, senza titolo. Il nome dell'autore non si trova sulla copertina, né sul frontespizio, ma nascosto all'interno della prima di queste poesie, un lungo testo (quasi 1400 versi) suddiviso in strofe dalla presenza di spazi bianchi. La storia del Canto di me stesso incomincia così e si conclude quasi trent'anni più tardi, nel 1881, quando Whitman pubblica la versione definitiva del suo capolavoro e attribuisce al poema più e più volte rimaneggiato il titolo con cui è oggi conosciuto.

Presentando una nuova versione del Canto di me stesso, il primo punto su cui soffermarci è proprio la storia del testo, perché Whitman viene spesso considerato un poeta ingenuo, spontaneo, dotato certo di una sensibilità fuori del comune, capace di versi memorabili («Oh capitano, mio capitano!» «Il mio barbarico yawp» «Mi contraddico? Molto bene allora mi contraddico»), ma anche ripetitivo, retorico, privo di una solida formazione, incapace di un vero controllo formale, insomma poco consapevole. Ebbene, se entriamo nel laboratorio di Whitman e seguiamo le varie fasi del suo lavoro emerge tutt'altro. Nella seconda edizione di Foglie d'erba (che esce nel 1856, solo un anno dopo la prima), Whitman attribuisce al suo poema un titolo, Walt Whitman, un americano, che equivale a dire: questa è nello stesso tempo poesia lirica e poesia civile, io parlo di me e nello stesso tempo parlo della comunità a cui appartengo, do voce al popolo americano. Interviene anche sulla punteggiatura: i puntini di sospensione che separano le frasi nella prima edizione sono infatti sostituiti da virgole, punti e virgole, punti fermi. È un primo passo per andare incontro ai lettori, senza rinunciare alle innovazioni più significative, come il rifiuto di versi tradizionali e rime, e alla scandalosità dei temi trattati (due fra tutti: l'amore omosessuale e il desiderio femminile). Le edizioni successive confermano questa scelta di fondo: Whitman lavora per chiarire il suo pensiero, per spiegarsi, in un certo senso, e stabilire con i lettori un dialogo quanto più possibile cordiale e democratico. Nell'edizione del 1860 le strofe sono numerate, da 1 a 372; il poemetto inoltre non si trova più all'inizio della raccolta, ma in seconda posizione, dopo una poesia più breve (quella che oggi è nota come Partendo da Paumanok), che funge da introduzione. Nell'edizione del 1867 (quella decisiva), le strofe vengono raggruppate in 52 sezioni. È evidente che leggere 1400 versi senza alcuna divisione che non siano gli spazi bianchi tra le strofe è cosa ben diversa dal leggere più o meno lo stesso numero di versi suddivisi in 52 sezioni. Nell'edizione del 1881, finalmente, compare il titolo Song of Myself, Canto di me stesso.

L'ambizione del poeta di riprodurre nei suoi versi la natura primigenia, selvaggia, ribelle a ogni costrizione e a ogni regola, si unisce a un desiderio di comunicare, e anche di spiegare, a una vis pedagogica, chiamiamola così, che fa parte dell'ispirazione democratica di Whitman e che lo spinge a creare un ritmo classico sui generis, basato su simmetrie interne, rimandi, riprese, antitesi.

Sarebbe quindi un errore fare di Whitman un entusiasta predicatore della propria soggettiva visione del mondo. La sua poesia aspira al contrario alla massima impersonalità, a rappresentare cioè tutti gli aspetti del reale, senza giudicare e senza escludere. In apparenza così egotistico, umorale, soggettivo, Whitman in verità intende cantare uomini e donne, vegetali e animali, anima e corpo, ciò che è bene e ciò che è male la poesia, come il sole che brilla e la pioggia che cade sui giusti e sugli ingiusti (cfr. Matteo 5, 43-48), canta «gli schiavi e gli schiavisti» (come recita un passo famoso, e famigerato, dei Notebooks, i Taccuini). Ecco perché Walt Whitman può definirsi «un cosmo» e, in un altro passo molto citato, affermare «mi contraddico» perché «sono grande» e «contengo moltitudini»: non si tratta di una facile giustificazione, ma del concetto fondamentale da cui nasce il Canto di me stesso, che non è l'esaltazione narcisistica del poeta, ma il riconoscimento che in ciascun individuo si trovano sintetizzate tutte le sfaccettature della realtà universale. Whitman è persuaso che gli Usa costituiscano una novità storica che richiede una poesia nuova, una cultura nuova. E il fattore determinante che rende inedito l'esperimento americano è la democrazia, di cui il poeta si fa cantore. Whitman, tuttavia, è ben lontano dal considerare gli Stati Uniti una democrazia realizzata: al contrario, la democrazia è per lui un ideale a cui tendere, un'utopia, non una realtà: il sistema americano è tutt'altro che perfetto, per questo il poeta si assume il compito di incitare i lettori a dare il loro contributo al percorso collettivo verso la democrazia.

Una delle tappe fondamentali di questo percorso è la Guerra Civile, che costituisce per Whitman (il quale vi partecipa come infermiere volontario) un'esperienza sconvolgente. La guerra infatti costringe il poeta a schierarsi a favore degli schiavi contro gli schiavisti, e più in generale a favore delle vittime e degli sconfitti contro i vincitori. La poesia democratica, la poesia cioè in cui tutti possano riconoscersi, progressisti e conservatori, donne uomini animali, bianchi afroamericani e nativi, etero e omosessuali... e l'aspirazione del poeta a conciliare le contraddizioni, a risolvere le antitesi in una superiore oggettività di sguardo trovano il loro limite non nella violenza generica, che fa parte della natura e quindi anche dei comportamenti umani, ma in quella forma di violenza organizzata, collettiva, industriale, che è la guerra moderna.

Qui l'euforia baldanzosa di Whitman incontra un ostacolo insuperabile, e il poeta è costretto a proiettare l'utopia in un futuro indefinito, rimandandola a un imprecisato «altrove... da qualche parte» che viene promesso ai lettori nell'ultima strofa del Canto di me stesso.

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